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Move. Quando la coreografia diventa una storia di riscatto

Move. Quando la coreografia diventa una storia di riscatto

In questa landa desolata dove il trend topic del momento è solo la parola Covid, un raggio di speranza si nota nelle “diatribe” on line su film e  docufilm che vengono trasmessi da Netflix, piattaforma televisiva on line di fama mondiale che sta producendo un successo di dietro l’altro e che ha il coraggio di investire, arrivando dove molti non hanno mai osato, per ottenere successi planetari. Così sta accadendo anche per il documentario originale Netflix Move prodotto da Falabracks e Gaumont e diretto da Thierry Demaizière e Alban Teurlai, registi e documentaristi francesi avvezzi al racconto biografico e in grado di raccontare con maestria la vita di Rocco Siffredi come Lourdes, e che già nel 2016 avevano esplorato il mondo della danza firmando il documentario Relève su Benjamin Millepied, ballerino principale del New York City Ballet e coreografo di fama internazionale.

Move racconta 5 coreografi che stanno plasmando l’arte del movimento in tutto il mondo e che stanno portando in giro per il mondo il loro personalissimo modo di “fare danza”. Move racconta 5 paesi, 5 storie e 5 tipi di danza diversi.

Il primo episodio è dedicata al 're del jookin' Lil Buck con il suo partner Jon Boogz che rappresenta il sogno americano con la voglia di riscatto della cultura afroamericana. Il secondo all’israeliano Ohad Naharin con il suo stile gaga: il gaga è uno stile di danza a metà tra ginnastica e rito liberatorio, è un modo per riprendere il contatto con il proprio corpo ed è potente sui danzatori come sui non danzatori, tra la gente.

A Israel Galvan è dedicato il terzo episodio: Galvan è un ballerino di flamenco che ha completamente sradicato e reinventato il nuovo flamenco, per lui è importante la danza in tutte le sue forme e vede il suo corpo come qualcosa che possa essere plasmato e al servizio delle sue idee completamente innovative. 

Alla giamaicana Kimiko Versatile, tra i nomi di punta della dancehall a livello mondiale, è riservato invece il quarto episodio: la sua danza racconta storie di resilienza femminile e un modo per liberarsi dal potere maschile e da una danza “popolare” fino ad oggi governata dal machismo.

L’ultimo episodio è dedicato al Bangladesh e ad Akram Khan danzatore e coreografo, emigrato con la sua famiglia in Inghilterra, che è riuscito magistralmente a coniugare le danze tradizionali indiane del Kathak con la danza contemporanea occidentale.

Gli episodi, che durano tra i 45 e i 60 minuti, sono docufilm del tutto autonomi e si possono anche vedere singolarmente, ma certamente è più interessante vedere tutta la serie per percepire quanto abbiano in comune le cinque narrazioni e come la narrazione proceda attraverso schemi abbastanza definiti: grandi scritte in arancione con passaggi e parole chiave chiosate da didascalie, i protagonisti che vengono raccontati a partire dalla loro estrazione sociale, dai luoghi in cui si sono formati, tra passato e presente. Filmati d’epoca, panoramiche sulle città e sui paesi coinvolti, le interviste personali e ai parenti stretti che si intrecciano con quelli dei collaboratori e degli addetti ai lavori. I protagonisti che vengono investigati nei loro momenti creativi, interrogati nelle loro motivazioni e colti nel loro ambiente privato. Riprese che meriterebbero il grande schermo, un montaggio appassionante e mai noioso, un uso sapiente dei silenzi e delle musiche combinate con brani e spezzoni di coreografie fuori e dentro dai teatri e dalle sale prova. 

L’intento unico è quello di far capire meglio come lavorino questi coreografi che hanno come base di partenza le proprie origini e la propria società alla base del proprio lavoro coreografico grazie al quale hanno cambiato non solo loro stessi ma anche i canoni della danza attuale. Tutti gli episodi raccontano di una storia di riscatto, di un sogno mai spezzato, come sia giusto credere sempre nella propria arte coreografica senza mai cedere alle porte in faccia. Raccontano come ogni elemento trovi spazio nei movimenti fisici, nei gesti, nel coraggio, nella determinazione e nella fatica. Raccontano della danza come forma d'arte capace di trasformare i contesti sociali e incidere sulle vite infondendo coraggio anche allo spettatore che vuol fare della danza la propria vita, teorizzando come la vita stessa possa portare ad un percorso artistico unico al mondo.

D’altro canto, vedendo Move, è anche abbastanza chiara una certa retorica tipica del racconto biografico americano che vuole mescolare i generi accostando modalità di approccio, stili e geografie molto distanti tra loro. Inoltre i “puristi” della danza potrebbero storcere il naso perché le coreografie si vedono a tratti e non se ne vedono interi segmenti ma, soprattutto dopo la messa on line di così tanti spettacoli, penso che un nuovo linguaggio che racconti l’essenza della coreografia piuttosto che la coreografia stessa possa aiutare maggiormente nell’intenzione di crearne una originale e propria. 

Credo che questo progetto abbia il pregio di raccontare ad un pubblico planetario la danza, nelle sue forme e nei suoi luoghi. 

Consiglio di vedere questo documentario a chi è appassionato di danza per trovare nuovi spunti e nuove conoscenze sugli stili di danza che vengono raccontati e per approfondire approcci coreografici completamente diversi; lo consiglio ugualmente anche a chi non è particolarmente interessato alla danza perché potrà conoscere delle storie emozionanti e trovare uno stimolo per conoscerla e magari innamorarsene.

Personalmente guardando Move ho sentito di aver conosciuto questi coreografi nella loro essenza che è poi il loro modo di essere artisti e mi è venuta una gran voglia di seguire questi protagonisti anche dal vivo (quando si potrà) per conoscere ancora meglio la loro arte coreografica. Spero vivamente che Netflix produca altri episodi di questo docufilm così ben riuscito.

 

 

© Expression Dance Magazine - Marzo 2021

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