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Petra Conti, parlare con il corpo

Petra Conti, parlare con il corpo

In maniera eloquente, il suo storico maestro Zarko Prebil, l’ha definita: “La Anna Magnani della danza”. Petra Conti sembra infatti parlare con il corpo, e non solo. Perché anche il suo viso, neanche fosse la più consumata attrice, sa essere di un’espressività commovente. E anche a sentirla parlare, la sua voce carezzevole lascia intuire una grande tempra, oltre che una profondità sorprendente per la sua giovane età. 

Petra, com’è nata la tua passione per la danza? Che influenza ha avuto la tua famiglia?

«In casa si è sempre respirata aria di arte, danza e musica classica… mia mamma e mia sorella sono state ballerine. La passione è cresciuta insieme a me. Mi piace pensare che la danza sia stata una vocazione».

Come pensavi alla danza quando eri bambina?

«Alle elementari, per tutti, ero già una piccola ballerina: non solo per il fisico, ma soprattutto per il modo in cui mi muovevo, per la voglia di ballare che avevo dentro. Anche il mio maestro di tennis diceva che correvo per il campo con la racchetta da tennis ma con la grazia di una ballerina. Eppure non sapevo molto del mondo della danza… non sapevo neanche cosa fosse il collo del piede finché non ho iniziato l’Accademia! Sapevo però cosa fosse la spaccata, perché ogni tanto mamma si metteva a farla… Sono cresciuta pensando che la danza fosse qualcosa di naturale e spontaneo, e che in ogni famiglia fosse così». 

Come sei arrivata all’Accademia Nazionale di Danza di Roma? Cosa ricordi di quel periodo?

«In quinta elementare, sono stata io a chiedere ai miei genitori di mandarmi in un’accademia professionale, come quella che avevano frequentato mia madre e mia sorella in Polonia. Abitavamo a un’ora da Roma e l’Accademia Nazionale di Danza mi sembrava facesse al caso mio. Per i miei genitori non è stato facile vedermi maturare cosi in fretta: a 11 anni mi sono trasferita in un collegio di suore nella capitale e così è iniziata la mia avventura. I primi anni in Accademia sono stati i più emozionanti: tutto mi sembrava più un bel gioco che un lavoro impegnativo. Non vedevo l’ora che arrivasse il momento di mettere le punte! E il primo saggio di fine anno è ancora un ricordo vivido e felice».

Quando hai preso coscienza del tuo talento? 

«Non c’è stato un momento in particolare ma, con il passare degli anni, le piccole e grandi soddisfazioni mi hanno reso cosciente del fatto che stavo lavorando per il mio futuro, che diventare una ballerina era il mio destino, che la mia vita sarebbe per sempre stata legata alla danza…».

Quali sono stati gli incontri più significativi o le esperienze che più hanno contribuito a far crescere il tuo talento?

«L’allora direttore dell’Accademia, Margherita Parrilla, è stata la prima a vedere potenzialità in me: grazie a lei ho iniziato molto presto a fare le prime importanti esperienze in scena, a viaggiare all’estero per confrontarmi con ballerini di tutto il mondo, assaporando quindi la vera vita di una ballerina. Proprio lei, negli ultimi anni di Accademia, mi ha assegnato al maestro Zarko Prebil con cui si è sviluppata una relazione che è andata al di là del rapporto insegnante-allievo. Mi ha trasmesso il valore e l’arte della danza, mi ha insegnato il rispetto e la dedizione per il nostro lavoro, mi ha fatto capire cosa vuol dire qualità, disciplina, e duro lavoro. Un maestro dolce e severo allo stesso tempo, Prebil ha creduto in me prima e più di tutti. Era il mio mentore, il mio fan più grande e il critico più severo. Se sono diventata la ballerina che sono, lo devo anche a lui… Con la sua recente scomparsa si è spento un pezzo di storia della danza. A me è venuta a mancare la persona che meglio conosceva le mie debolezze e i miei talenti, ma anche la mia ancora di riferimento, il nonno che non ho mai conosciuto». 

Cosa rappresenta la danza per te? 

«È il mio modo preferito di comunicare! La danza credo sia davvero un linguaggio universale, con il quale io riesco a esprimere emozioni e stati d’animo che perdono di valore e intensità se raccontati a parole. Il fatto di essere emotiva mi aiuta a immedesimarmi nel mio personaggio in scena. Dietro a ogni passo o gesto c’è un perché: la danza è un linguaggio puro, che continua a evolversi di generazione in generazione».

Quali sono stati i momenti di maggiore difficoltà? 

«Ogni mio infortunio è sempre stato un momento difficile: il fatto di dovermi fermare, per poi affrontare la grande fatica di ritornare in forma. Ovviamente non posso dimenticare la terribile scoperta del cancro al rene. La settimana prima di essere operata, ho ballato il “Lago dei Cigni”, provando un’emozione indescrivibile perché pensavo che forse sarebbe stato l’ultimo per me… Ora a più di un anno di distanza, senza più tumore, mi sento davvero fortunata. Quest’esperienza mi ha cambiato molto, pure nel modo di danzare. Anche le vocazioni vengono messe a dura prova…». 

Dopo il diploma e dopo un anno a San  Pietroburgo e uno a Monaco di Baviera, a 21 anni, sei entrata nel corpo di ballo del Teatro alla Scala di Milano dove sei diventata presto prima ballerina…

«Sì. Ho danzato “Giselle” dopo appena tre mesi dal mio arrivo in compagnia e questo ha segnato il vero inizio della mia carriera. Grazie all’allora direttore artistico Mahar Vaziev, ho potuto crescere e ballare tanto in scena. Sono state tante le ore di lavoro, ma anche tante le soddisfazioni, e diventare prima ballerina alla Scala di Milano è stato un traguardo che sognavo e al quale puntavo, ma che, una volta superato, mi ha fatto capire che questo era solo l’inizio, non un punto d’arrivo». 

Come nasce la decisione di accettare di trasferirti negli Usa, dove lavori come free-lance  e principal ospite per diverse compagnie quali il Boston Ballet e il Los Angeles Ballet? 

«Dal desiderio di continuare a perfezionarmi, di mettermi di nuovo in gioco, di superare nuove sfide e di crescere come artista, e come persona. Proprio per questo, ora voglio sentirmi libera di fare le mie scelte e prendere le strade che credo mi faranno crescere ulteriormente. Sono entusiasta di viaggiare e lavorare nei teatri di tutto il mondo, perché mi piace cambiare, apprezzare culture diverse e imparare da ognuna qualcosa di nuovo. Casa per me ha un valore affettivo e simbolico, non è un luogo ben preciso. La famiglia è lontana fisicamente, ma la sento molto vicina a me. La lontananza e la malinconia ho imparato a domarle da bambina». 

Quanto è stato importante condividere questa esperienza con tuo marito Eris Nezha? 

«Il fatto di esserci trasferiti in America e di essere lontani da tutti, ci ha unito ancora di più come coppia. Abbiamo preso insieme la decisione, coscienti di quello che avremmo perso, e vagamente a conoscenza di quello che ci aspettava oltreoceano. Siamo entrambi avventurieri e adoriamo le sfide, perché pensiamo che ogni sfida ci faccia crescere come artisti e come persone». 

Come vi siete conosciuti e com’è condividere tutto: lavoro e vita privata?

«Avevo solo 17 anni quando, entrambi ospiti dell’Arena di Verona, ci siamo trovati a danzare in  “Cenerentola”, il mio primo balletto intero. Lui era alla mia prima “Giselle” alla Scala. Poi abbiamo fatto tutto insieme dalla nomina a primi ballerini sul palco del Bolshoi alla decisione di trasferirci in America, dalle piccole e grandi soddisfazioni, alla notizia di avere un cancro, al fatto di averlo superato e di continuare la nostra vita in modo normale… Senza Eris al mio fianco non ce l’avrei fatta a fare tutto questo, e a superare con tanta forza i momenti difficili… Condividere lo stesso lavoro è unico per noi: non si tratta solo di affiatamento artistico in scena, ma del lavoro di tutti i giorni, insieme dalla sbarra, fino alle prove fuori orario la sera, fino a rimuginare sul ruolo o farci le correzioni durante la cena. Ci sosteniamo ed aiutiamo a vicenda, e impariamo continuamente l’una dall’altro. Non ha prezzo soprattutto il fatto che Eris mi faccia da personal coach! Questa generosità infinta è forse la qualità più grande di mio marito. Stare in sala a lavorare da soli è ciò che ci ha uniti sin dall’inizio. Questa nostra intesa, cura del dettaglio e ricerca della qualità è ciò che il pubblico apprezza quando balliamo insieme, ciò che ci rende speciali come coppia».

Come valuti la situazione della danza in Italia rispetto a quella negli Stati Uniti?

«Nel nostro Paese manca il necessario supporto… Ma nonostante questo momento di crisi, tanti talenti continuano a emergere. Questo ci dovrebbe far riflettere sull’attenzione e sulle condizioni che l’Italia dovrebbe offrire, affinché questi talenti non scappino all’estero alla prima occasione! A maggior ragione se si considera che l’Italia ha una storia che la maggior parte del mondo sognerebbe di avere, ma che se avesse, custodirebbe con grande cura. I teatri e le compagnie di danza sono patrimoni culturali dei quali l’Italia dovrebbe essere orgogliosa come lo è del David di Michelangelo, o del Colosseo».

Qual è il ruolo che hai interpretato, che più ti ha emozionata? 

«Personalmente adoro i ruoli drammatici, quelli con una storia profonda e dove il mio personaggio si evolve. La cosa che più mi piace della danza è diventare il mio personaggio, studiare ogni suo pensiero, azione, movimento. La recitazione e la ricerca artistica sono le cose su cui mi concentro di più, ed è per questo che amo in particolare i balletti con più atti, dove devo interpretare scene d’amore, di pazzia, di passione, di disperazione... Ho un debole per i ruoli dove devo piangere o morire in scena».

Che consigli daresti ai giovani di oggi che sognano un futuro da ballerino? Quali caratteristiche sono necessarie e quali gli ostacoli da affrontare?

«Un ballerino, come ripeto spesso, deve avere il “cuore”: le emozioni vengono trasmesse al pubblico solo se sono genuine. Sul palco esce il nostro io più nascosto; la tecnica è al servizio dell’artisticità e delle emozioni che abbiamo dentro. La propria personalità non va soffocata, ma coltivata con cura, perché più si è veri con se stessi più il ballerino è in grado di calarsi completamente nel personaggio e farlo suo. Non imitate gli altri, ma imparate dagli altri. E poi, ai giovani ripeto quello che mi ripeteva sempre il mio amato maestro Prebil: “Lavoro, lavoro, lavoro!”. La perfezione non esiste, esiste solo la voglia di raggiungere l’eccellenza personale in ogni passo o gesto». 

Com’è la tua giornata tipo? Cosa ti piace fare al di fuori della danza?

«La mia giornata tipo si svolge in sala da ballo, o in teatro durante gli spettacoli. Dopo un’ora e mezza di lezione quotidiana, inizio le prove per i prossimi spettacoli, che continuano anche dopo la pausa pranzo. Le prove sul palco si fanno solo prima di andare in scena e in quei giorni, quando la tensione si fa più grande, non ho né la testa né il tempo per pensare o fare altro che non sia lavorare sul balletto o cucirmi-prepararmi le tante paia di punte che userò in scena. Prima dello spettacolo mi piace il momento del trucco e parrucco, perché è li che già entro nel mio personaggio. Ceno dopo lo spettacolo e spesso capita che io non riesca ad addormentarmi per via dell’adrenalina o delle emozioni forti che ho provato in scena. Nel tempo libero invece mi piace riposare, dormire tanto, e stare a casa con mio marito e guardare un film, o ancora meglio una bella serie tv americana…».

Ti piacerebbe ritornare in Italia?

«L’Italia è la mia patria, e spero di tornare a ballare spesso nei teatri italiani».

Progetti a cui ti stai dedicando, oltre la danza?

«Sto studiando per ottenere una laurea in Scienze di Leadership alla Northeastern University. Vorrei diventare una leader che stimola la comunicazione, che ascolta e supporta, che non ha paura di sfide e cambiamenti per il meglio, e il cui principale obbligo è prendersi cura del proprio team e far sì che le persone siano contente di venire a lavorare. Ho imparato che si ottiene il triplo se ci sono le condizioni necessarie e l’atmosfera giusta per svolgere il proprio lavoro. Spero un giorno di applicare la mia conoscenza e la mia esperienza a capo di una importante organizzazione, artistica o non». 

Un sogno nel cassetto?

«Aiutare gli altri a superare i momenti difficili. Da quando ho comunicato la mia storia personale del cancro sul mio account Instagram, tantissime persone mi hanno scritto dicendomi che per loro sono un esempio di forza, di coraggio e di voglia di andare avanti. In tanti vorrebbero che io scrivessi un libro, in modo da condividere la mia esperienza di artista ma soprattutto di persona, che ha superato a 28 anni lo sconforto di dover mettere in pausa la propria carriera, e concentrarsi sulla propria vita. Purtroppo gli artisti, e noi danzatori in particolare, soffriamo doppiamente perché la nostra carriera è molto breve e lo stigma della malattia rimane, nonostante si riesca a tornare in forma e anche migliori di prima. Ora che è tutto passato e che sono più forte di prima, mi sento in obbligo di aiutare tante altre persone che hanno sofferto e soffrono, o che non riescono a farsi forza a causa di una malattia o di un grande dolore… Uno dei progetti molto prossimi è di collaborare con l’American Cancer Society, per aiutare i milioni di malati di cancro e sensibilizzare la gente su questo doloroso argomento. Ma questo è solo l’inizio di una missione personale…».

 

 

© Expression Dance Magazine - Dicembre 2017

Letto 11526 volte Last modified on Giovedì, 21 Dicembre 2017 12:48