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Anna Maria Prina, la signora della danza italiana

Anna Maria Prina, la signora della danza italiana

 

Una carriera decennale e di grande successo. Una Scuola di Ballo, quella del Teatro alla Scala di Milano, di cui è stata Direttrice: un sodalizio durato ben 32 anni, durante i quali sono nati e cresciuti numerosi danzatori e danzatrici, che lavorano oggi in Italia e all’estero.

Signora Prina, il Suo nome è naturalmente associato alla figura della Direttrice, ma nella Sua carriera Lei è stata naturalmente anche allieva e insegnante, coreografa, autrice di un testo di metodologia della danza classica. Può raccontare un ricordo per ciascun ruolo?

La danza è il mio grande amore, maturato nel tempo, perché da bambina non avevo ben chiaro cosa fosse il mondo della danza. Da allieva ho amato profondamente la lezione di danza, la sbarra, che è la compagna di vita per tantissimi anni di tutti i ballerini, come lo specchio. Già da ballerina ho cominciato a pensare all’insegnamento, ma questo germe interiore, che certamente era in me, si è veramente sviluppato negli anni ’60, durante il corso di perfezionamento insegnanti in Russia. Lì l’insegnamento si concentrava su aspetti tecnici e teorici, mentre in Italia l’allievo imparava osservando il maestro e “imitandone” i passi. Non mi definirei una coreografa in senso stretto, perché ho creato o per la scuola, quindi con un linguaggio accademico, o per le opere liriche, quindi con un’attenzione alle necessità del regista, con cui si lavora gomito a gomito; soprattutto, non mi definirei coreografa, perché non sento l’esigenza di creare, che è, invece, sempre alla base di questo lavoro artistico. Scrivere un libro non è stato facile, a causa degli impegni (l’ho redatto, infatti, per lo più di notte), ma sono contenta di averlo scritto, perché sentivo l’esigenza di mettere su carta quanto sapevo, cercando di farmi comprendere anche a chi di danza non è strettamente competente. 

Ricorda il Suo primo giorno di scuola da Direttrice? 

Più che il primo giorno, ricordo la notte precedente! Al mio rientro a Milano dalla Russia, sono stata scelta per affiancare John Field alla direzione del Corpo di Ballo e, particolarmente, della Scuola: ho lavorato sempre con zelo per ricambiare la fiducia che lui riponeva in me. Una sera di fine estate del 1974 mi ha telefonato l’allora sovrintendente Paolo Grassi, dicendomi di presentarmi il giorno dopo a Scuola per prendere il posto di Field. Ho passato una notte di agitazione! Ero naturalmente contenta dell’incarico, ma avevo solo 30 anni!

Su quali elementi ha improntato la Sua direzione della Scuola di Ballo?

Ho cercato di aprire la Scuola alle novità, sempre nel rispetto della storia di questa Istituzione: ho cercato di costruire un corpo docenti affiatato e coerente; ho dato spazio alla danza maschile, aumentando e stabilizzando gli insegnanti per le classi di ragazzi; ho inserito nuove discipline di studio, sia teoriche (storia del balletto e musica), sia pratiche, come Pilates (che in Francia mi aveva colpito positivamente), danza spagnola (quella autentica e non rivisitata nelle danze di carattere, che erano già nel piano di studi) e soprattutto, la danza contemporanea, con grande scandalo! Volevo che gli allievi conoscessero la danza contemporanea non solo come insieme di passi, ma come fenomeno culturale, studiandone la musica e vedendo gli spettacoli. Infine, ho voluto attivare i corsi per la propedeutica, per insegnanti e pianisti accompagnatori.

A quali progetti si dedica da quando ha lasciato la Direzione della Scuola a ottobre 2006?

Realizzo progetti di insegnamento con la Regione Lombardia, sono giurata in numerosi concorsi, viaggio spesso in Italia e all’estero per consulenze presso scuole di ballo, seminari di formazione e stage: per esempio, in Francia, tengo corsi sul metodo Vaganova, di cui i francesi si sono incuriositi. E continuo a muovermi e a studiare. Non mi annoio!

Quali sono a Suo parere le doti che devono possedere gli allievi e le allieve per diventare dei buoni ballerini classici e dei buoni danzatori contemporanei?

All’inizio del percorso di studi non c’è molta differenza fra bambini e bambine, perché si giudicano il fisico dei candidati, che deve essere snello e, soprattutto, proporzionato, la loro attitudine al movimento, la coordinazione, l’elasticità, la musicalità, la capacità di concentrazione. Elementi fisici come, per esempio, il collo del piede, non sono, tuttavia, un diktat, perché la loro mancanza può essere compensata dall’enorme talento e, soprattutto, questa estetica corporea molto rigida è tipica della danza classica, ma non della danza contemporanea, quindi i danzatori di talento possono comunque esprimere il loro potenziale. Più avanti, nell’uomo ci devono essere grande forza e resistenza e un atteggiamento estetico energico, come lo possedeva, per esempio, Nureyev; nella donna, invece, la forza deve essere nascosta sotto la grazia e la leggiadria. Per tutti sono necessari, inoltre, un atteggiamento mentale di grande forza e determinazione e lo studio, inteso come ampliamento del loro orizzonte culturale, per capire cosa danzano e non solo ballare come mera esecuzione.

D’altro canto, quali pensa siano le doti di un buon insegnante di danza e di un buon Direttore di una scuola, indipendentemente dal fatto che si lavori all’Accademia del Teatro alla Scala di Milano o in una realtà più piccola?

Innanzitutto, il lavoro di insegnante e di direttore devono essere basati su un solido studio e una buona esperienza di palcoscenico. L’insegnamento è una vera e propria scienza, perché si deve esser capaci di scomporre i passi e spiegare ogni singolo movimento, quindi avere piena consapevolezza di cosa si sta insegnando. Non deve mancare una certa cultura, non intesa come titolo di studio, ma come conoscenza della materia e padronanza pedagogica: la decisione, l’intransigenza anche, devono sempre mescolarsi alla pazienza e alla voglia di trasmettere il proprio sapere ai ragazzi, nel modo che meglio si adatta ad ogni singolo allievo. È importante gestire bene la classe e non avere preferenze, o esserne consapevoli per poter comunque prestare la giusta attenzione a tutti gli allievi. Da non trascurare la cura del proprio corpo. Quando, poi, l’insegnante è l’unico esempio di danza per i ragazzi (come accade spesso nelle scuole private) è fondamentale mostrare i passi in maniera chiara e precisa, comprese braccia e mani. Un direttore (che a mio parere dovrebbe avere un passato da insegnante) deve essere anche lui persona di grande cultura, onesta, retta; deve conoscere la psiche umana e pensare sempre e solo agli allievi, nonché prendere delle decisioni e motivarle.

L’insegnamento non è un percorso a senso unico, ma uno scambio reciproco fra docente e discente. Cosa insegna un giovane danzatore al suo insegnante?

Gli allievi obbligano un insegnante a fermarsi a riflettere sul proprio carattere, sulla propria personalità, a capire come agire per andare incontro alle loro esigenze, perché si contribuisce a formare non solo dei danzatori, che è alquanto scontato, ma anche delle persone. E poi gli allievi, soprattutto i più piccoli, hanno molta creatività e voglia di esprimersi, che a mio parere devono essere accolte dagli insegnanti; per esempio, le mie allieve in Scala, spesso, costruivano loro stesse l’esercizio d’adagio che veniva poi presentato agli esami di fine corso.

A grande sorpresa, è ritornata in scena nel 2014 con un assolo intitolato “Madame”, coreografia di Michela Lucenti, al Teatro Due di Parma. Può parlarci dello spettacolo?

Ho conosciuto per caso a teatro Michela Lucenti, una danzatrice e coreografa davvero intensa, che mi ha fortemente voluta per questo assolo. Il suo lavoro su di me era basato su un continuo dialogo fra di noi, che mi ha portato a esprimere aspetti del mio carattere che ho sempre tenuto nascosti. Ne è nato uno spettacolo di 40 minuti, a mio parere estremamente raffinato, in cui si mescolano danza e recitato, che si conclude con il mio ricordo di un’insegnante russa che mi invitava costantemente a lavorare, come poi ho sempre fatto.

Nel 2016 ancora in scena, con uno spettacolo, di cui è stata anche madrina, “TreD – Design, Danza, Disability”, alla Triennale di Milano: con Lei ex-allievi e i ballerini abili e disabili della compagnia Dreamtime. Ci racconta qualcosa in più? Come può combinarsi la disabilità fisica con la danza, che richiede al corpo umano la perfezione di linee e forme?

Lo spettacolo si compone di scene, proiezioni, filmati; vi partecipano Emanuela Montanari, Stefania Ballone, che ne è la coreografa, e Christian Fagetti, con cui ho interpretato un passo a due di teatro danza. Questa esperienza è stata molto significativa per me, perché per la prima volta sono entrata in contatto stretto e prolungato con persone con disabilità. All’inizio è stato spiazzante, ma poi lo scambio è stato coinvolgente: io preparavo delle lezioni di body conditioning, adatte a loro, seguite con entusiasmo e passione, ricercando il massimo risultato nel movimento, la perfezione possiamo anche dire, in base alle loro possibilità: è un modo altro di guardare alla danza e al movimento artistico. E anche alla vita, perché si impara a lamentarsi di meno e ad apprezzare ciò che si ha.

 

 

 

© Expression Dance Magazine - Giugno 2019

 

 

 

 

 

 

 

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