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Danza e società: dal singolo alla comunità

Danza e società: dal singolo alla comunità

Torniamo spesso sulla riflessione legata al corpo in quanto tale e al corpo in relazione col mondo circostante. 

Veicolo di emozioni, ha in sé linguaggi non sempre codificabili, se non grazie a un’attenta e rigorosa lettura e conoscenza del suo mondo.

Partendo da questo presupposto, ognuno di noi dovrebbe riflettere sul proprio approccio col mondo, sulla percezione di sé in relazione con gli altri corpi e sulle modalità attraverso le quali scegliamo di interagire sin da piccoli: i bambini sono infatti portati a muoversi nel mondo con naturalezza e spesso la danza diventa il loro linguaggio, istintivo e primordiale. Non possiamo di certo negare la complessità di questa forma di interazione sociale, poiché richiede la capacità di integrare movimento, musica, ritmo e spazio, coordinando il proprio movimento coerentemente rispetto agli stimoli esterni. 

Numerosi studi hanno messo in evidenza la predisposizione del neonato, già dai primi mesi di vita, a reagire agli stimoli musicali attraverso movimenti istintivi; una reazione talvolta più evidente rispetto a quella conseguente al linguaggio verbale, utilizzato come canale privilegiato della comunicazione umana.

Tali studi hanno inoltre evidenziato come la danza, all’interno di un certo contesto sociale, abbia o possa avere riscontri educativi non indifferenti: si pensi che è stato più volte constatato quanto i movimenti simili portano a coesione sociale e solidarietà.

Come ci dice chiaramente Cristina Natali (docente di Antropologia presso l’Università di Bologna) attraverso le sue ricerche, la danza, se analizzata anche da punti di vista differenti e da culture differenti, trova nella traduzione stessa del termine curiosi risvolti: le connotazioni sono tante e varie, da gioco, divertimento o piacere, si giunge anche a significati legati alle rappresentazioni e riproduzioni di scene di vita, evocative, richiamanti sempre la socialità, la comunità, la storia comune di una cultura.

Cristina Natali ci parla di danza come un’arte “plastica”. 

Le danze di tutto il mondo, cambiano, si trasformano e incorporano i mutamenti storici, la danza è un’arte del movimento, ma soprattutto, in movimento.

La danza è un’arte viva, capace di incorporare i cambiamenti. 

Si fa però sempre più fatica a rendersi conto che anche le danze di altre culture mutano col passare del tempo: questa comprensione è resa possibile grazie all’antropologia della danza, una disciplina nata negli anni’60 e grazie alla quale si comincia a pensare alla danza, annullando la dicotomia “danza occidentale” e “danza altra”, dando a tutte uguale dignità.

Siamo consapevoli della visione etnocentrica della danza, di interpretazioni che pongono in primo piano e come massima espressione di questa arte le rappresentazioni provenienti dai repertori occidentali.

Tendiamo a intendere la danza come arte del movimento, caratterizzata da espressioni più o meno perfette; ma cambiando radicalmente punto di vista e concedendoci la possibilità di osservarla dimenticando i modelli socialmente riconosciuti, ci renderemo conto che la danza è spazio e tempo, scandisce il ritmo e le fasi della vita. 

La danza mette in gioco diversi aspetti della vita sociale dell’individuo, poiché può essere riconosciuta nella sua natura artistica, ma fonda le radici nella capacità della persona di rispondere a uno stimolo musicale e sociale, una capacità quest’ultima legata alle capacità innate della persona.

L’antropologia della danza, indagando la danza in un intreccio dialogico tra culture, dà un’interpretazione nuova anche all’intreccio tra i corpi tipici di questa arte: il gioco di ruoli, le analisi delle relazioni tra i corpi (tra uomo e donna) lo studio del lavoro di artisti e coreografi, del loro background sociale, da cui derivano vere e proprie letture e studi, ci dà modo di comprendere anche il mondo che nella danza va a mostrarsi. 

Dall’apparenza del movimento, si giunge alla profondità del pensiero, che dà vita a quel movimento, rivelando il contesto socio-culturale all’interno di questa espressione artistica. Analizzando le danze, possiamo infatti notare le differenze socio-culturali, osservando il pubblico (la sua posizione rispetto alla scena, i tempi della reazione), osservando la tipologia di spettacolo, la storia del racconto e la sua durata, fino ad arrivare all’aspetto fisico del danzatore, il quale parla della cultura in maniera diretta. Le differenze sono tante e, ogni singola differenza, andrebbe indagata per comprendere cultura e società.

Studiare la danza per comprendere la sua funzione sociale è un passo sicuramente complesso, ma potrebbe dare effetti nuovi e sorprendenti anche a insegnanti e coreografi che, in questo delicato momento storico, vogliono dare una nuova lettura della propria professionalità e del proprio processo creativo a giovani danzatori, in un percorso motivazionale diverso rispetto ai classici metodi accademici e scolastici.

Ne abbiamo parlato con Sara Sguotti, danzatrice e coreografa, al momento impegnata con il progetto “HOP” di Dance Well.

Sara, parlaci un po’ del tuo percorso, quali sono stati i passi più importanti nell’acquisizione di consapevolezza relativa alla funzione della danza?

Io nasco come danzatrice, ho seguito un percorso classico, la scuola di danza e la scuola privata, poi ho sentito l’esigenza di ricercare nel corpo, nel movimento e nella funzione reale che movimento, corpo, danza e arte in generale hanno nel contesto sociale: comprendere il rapporto tra le varie dimensioni, un interscambio che genera situazioni, non sempre di facile interpretazione, ma legate a una dimensione più profonda del legame tra corpi.

Nel mio lavoro di coreografa e artista non posso esimermi dalla ricerca, per me ogni momento della creazione artistica e della condivisione con il pubblico è integrante di questa ricerca, per questo cerco di uscire dai classici dettami culturalmente definiti: punto all’annullamento della famosa quarta parete e cerco continuamente un rapporto, un dialogo con il pubblico, cercando di creare empatia con gli spettatori.

Un paio di anni fa è arrivata la proposta di lavorare con Dance Well, un progetto nato a Bassano del Grappa di ricerca nel movimento per i malati di Parkinson, ma non solo. L’obiettivo è creare una comunità, con l’intento di promuovere la danza in diversi contesti culturali-artistici cittadini. 

Per me la proposta è sembrata da subito interessante: metto sempre al primo posto il processo creativo del corpo pensante in comunicazione con gli altri corpi, in una sorta di condivisione continua e reciproca di spazi ed emozioni. 

Lo scopo di questo progetto è stato proprio quello di imparare a convivere e condividere nel movimento, creando così una comunità di persone che ricercano lo scambio.

Ho conosciuto 22 persone, eterogenee dal punto di vista del background sociale e di età, ognuno con la propria storia, ma accomunate dalla voglia di mettersi in gioco e sentirsi parte di qualcosa.

Acquisendo consapevolezza sul senso di comunità, in questo progetto ho davvero percepito il valore profondo del gesto comune, che nasce anche dalla sua funzione educativa.

Mi colpisce molto questa tua considerazione della danza. Ora che la pandemia ha causato una sorta di allontanamento tra le persone, tu ci parli di comunità e senso di appartenenza sviluppati attraverso la danza. Pensi si possa ripartire da questo lavoro per ricondurre i giovani alla danza?

L’evoluzione del progetto mi ha effettivamente donato tanto e aiutato nell’apprendere e comprendere la gestione delle dinamiche di gruppo: partendo dall’idea di corpo unico, si procede nella costruzione di una esperienza comune, caratterizzata dal senso di appartenenza e dalla capacità di sviluppare una sempre maggior sensibilità nei confronti dell’altro. 

Questo lavoro sulla comunità è un lavoro che cerca di far emergere le varie modalità di accettazione e ciò potrebbe essere fondamentale in questo momento storico, soprattutto tra i giovani. L’accettazione della diversità nella costruzione della comunità è un passaggio fondamentale anche all’interno della scuola di danza, per questo non ci si può esimere da questi insegnamenti.

Lo troverei un lavoro molto utile anche nelle formazioni della danza, poichè grazie alla comunità si può trovare il modo di darsi forza a vicenda, una ragione per andare avanti.

Hai citato il lavoro delle scuole di danza e la grande possibilità che queste hanno ora: dare voce ai giovani e alle loro necessità più profonde, non necessariamente legate alla tecnica e alla forma, ma anche alla motivazione. 

In questi anni di ricerca ho capito come l’idea di comunità debba essere anche alla base delle singole classi, per richiamare il rispetto: è necessario un esame di coscienza sul valore dell’essere umano come singolo e come comunità.

Sarebbe utile e molto educativo sviluppare progetti di incontro su larga scala, dal singolo alla comunità, allargando i punti di vista, i contatti tra comunità e regioni.

In questo periodo storico emerso come la scuola di danza sia maggiormente legata all’idea di sport.

Pochi si allontanano dall’idea di insegnamento canonico, un’idea diversa rispetto all’apprendimento della mera tecnica, che guarda maggiormente al gruppo, all’identità comune, culturale e sociale. Quest’idea non si lega al linguaggio, né alla disciplina, ma cerca di portare il valore della comunità all’interno del luogo di formazione. Ciò diventa necessario per ampliare la propria conoscenza.

Vivi la danza come un rituale più che come una forma di espressione meramente artistica, all’interno del quale cerchi sempre di instaurare un rapporto con il pubblico, cosa ti ha condotto qui? 

Credo nel rituale inteso come momento di cambiamento e passaggio. Viviamo in un mondo, dove le influenze sono molteplici, per questo non riesco a pensare a un momento di condivisione senza relazione reale tra danzatore e spettatore.

Dal corpo pensante arriva la possibilità comunicativa, sta nella persona che crea il movimento cercare un legame con la comunità (allievo o spettatore), in modo da generare contenuti di diverse tipologie e caratterizzanti diversi piani della creazione artistica (partendo dalla formazione, fino a giungere a spettacoli e pratiche artistiche di condivisione).

La danza per me è incontro, nella separazione non c’è crescita, non c’è sviluppo.

Per questo dovrebbe essere necessario rivedere anche le modalità di dialogo tra le scuole di danza: è impossibile evolvere se tra le singole scuole vi è un muro. Solo i momenti di coesione e dialogo possono creare le condizioni per uno scambio di possibilità e per un cambio di punti di vista nella scala dei valori.

 

 

 

 

© Expression Dance Magazine - ottobre 2021

 

 

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