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Il gruppo: caratteristiche e dinamiche in ambito coreutico

Il gruppo: caratteristiche e dinamiche in ambito coreutico

 

CARATTERISTICHE DI BASE DEL GRUPPO

Cosa intendiamo quando parliamo di gruppo?
Da un punto di vista psicologico e sociale un insieme di persone può essere definito «gruppo» quando soddisfa alcune peculiari caratteristiche:
• deve essere presente un contatto sociale diretto e significativo (presenza di costanti contatti e di relazioni significative tra gli individui);
• deve essere presente una coscienza di gruppo. I componenti del gruppo devono avvertire di appartenere ad un «noi» che possiede una storia ed una stabilità;
• deve essere presente una struttura di organizzazione e funzionamento di gruppo, nel senso che il gruppo deve avere una vita indipendente da quella dei singoli.

Ciascun membro per stare nel gruppo è soggetto a regole che non dipendono solo dalla sua volontà. In più tra i membri è presente l’esperienza soggettiva di condivisione delle regole, degli scopi, dei legami, etc…
A livello psicologico un gruppo può essere considerato tale sulla base delle influenze reciproche tra i suoi componenti. Un osservatore esterno, inoltre, dovrebbe poter cogliere un insieme di individui che presentano qualcosa in comune, che condividono una caratteristica, una attività, uno scopo, etc…, raggruppati sulla base del fattore somiglianza.
Osservando i diversi punti si nota come l’elemento collante sia la formazione di un “senso del noi” che si forma e sviluppa attraverso processi di coesione e differenziazione.
La prima (coesione) si forma grazie alla evidenziazione di elementi distintivi e requisiti che tendono a favorire la reciproca accettazione.
La seconda (differenziazione) mediante il riconoscimento di ruoli, status ed incarichi che raffigurano ognuno come elemento fondamentale ed essenziale.
Tuckman (1965) elenca quattro fasi nello sviluppo della vita di un gruppo:
Forming; Storming; Norming; Performing.

Quindi una prima fase di formazione del gruppo, una seconda di conflitto dovuto all’attribuzione dei ruoli, una terza fase di strutturazione ed un’ultima di attività. Tuckman teorizza che queste fasi sono tutte necessarie in un gruppo.
Successivamente a queste ne aggiunse una quinta (1977) in collaborazione con M.A. Jensen, che venne definita: Adjourning. Sinteticamente possiamo dire che questa è la fase che comprende il processo di “dissolvimento” del gruppo. Per il senso di perdita che viene riconosciuto da molti membri del gruppo in questa fase, alcuni autori, compreso lo stesso Tuckman, la indicano anche con il termine “Mourning” (lutto).


NUMERO DEI COMPONENTI

Per fare un gruppo occorrono almeno 3 persone: già a questa numerosità si verificano alcuni fenomeni che caratterizzano il gruppo, come ad esempio la formazione di sottogruppi, di maggioranze e minoranze, fenomeni di emarginazione e di esclusione dei membri.
Se da un gruppo di tre elementi si ritira un individuo, il gruppo svanisce e si trasforma in una diade; se il gruppo è formato da più di tre persone il ritiro di una di esse incide sempre meno sulla stabilità nel suo insieme.
Esiste anche un limite massimo teorico per ciascuna tipologia di gruppo: esso è strettamente legato alle possibilità di contatto sociale diretto e significativo fra i membri. Più è alto il numero dei membri, minore è la possibilità di contatto diretto tra di essi; oltre un certo limite ogni gruppo tende a sfaldarsi.
Non esiste una dimensione ottimale del gruppo, ma di sicuro la numerosità influenza in modo determinante la frequenza e la qualità dei rapporti tra i membri, inoltre essa appare essere strettamente legata allo scopo del gruppo. Sopra le sei unità sembra sia difficile per i membri del gruppo pensare agli altri come persone singole e differenziate. Gli altri vengono vissuti come appartenenti a sottogruppi.
Le relazioni non appaiono più essere tra singoli membri, ma tra i diversi sottogruppi.


CLASSIFICAZIONI E DENOMINAZIONI

Nel settore delle ricerche sui gruppi sono state proposte numerose definizioni di gruppo; alcune sono condivise dall’intera comunità scientifica, altre sono invece utilizzate solo nell’ambito di analisi proposto da una specifica teoria di riferimento.
Il gruppo «primario» è caratterizzato da rapporti informali tra i membri, dimensione ridotta, forte solidarietà, reciproca accettazione, intima conoscenza ed interazioni frequenti tra i componenti del gruppo.
Il gruppo può essere definito «secondario», quando i rapporti tra i membri sono organizzati in relazione al raggiungimento dell’obiettivo del gruppo. Spesso le relazioni sono formali e mediate da regolamenti; l’interazione tra i membri è limitata nel tempo e nell’intensità.
Infine il «gruppo di riferimento», intendendo con tale termine una tipologia di gruppo che costituisce per i membri uno schema di riferimento, una guida nel modo di vedere e di pensare la realtà. Dei gruppi di riferimento si adottano i modelli comportamentali, gli stili, etc.. Rispetto alla loro origine, al loro modo di formarsi i gruppi possono essere distinti in: spontanei oppure organizzati.


IL GRUPPO NELLA DANZA

Abbiamo precedentemente evidenziato come la numerosità sia un elemento “critico” in un gruppo.
Dobbiamo osservare però che nell’ambito della danza la nascita, la struttura e quindi la numerosità stessa del gruppo è vincolata a fattori specifici e solitamente diventa compito del coreografo stabilire questi elementi in base a precise esigenze coreografiche, esigenze che portano anche alla attribuzione di ruoli.
Nella danza, le compagnie di balletto o le classi individuano come gruppo un numero adeguato per la composizione e per il miglioramento del livello di produttività. Numero stabilito quindi dal coreografo o dall’insegnante, in associazione alla attribuzione di ruoli a seconda delle abilità e/o capacità del singolo danzatore. Un gruppo formato da troppi soggetti creerebbe diversi problemi pratici, dalla difficoltà nei rapporti interpersonali alla difficoltà dell’insegnante a dare la giusta attenzione ad ogni singolo soggetto, con relativa complicazione nella strutturazione della performance. Sempre legato al problema di una numerosità elevata potrebbe essere la presenza di diversi soggetti con le stesse caratteristiche e che possono ricoprire ruoli uguali. Questo potrebbe portare a diminuzioni di prestazione e di impegno, portando il gruppo verso cali di coesione e quindi di risultato.
Quindi gruppi troppo piccoli o troppo grandi risultano problematici, in quanto in uno i soggetti vengono troppo caricati e responsabilizzati, nel secondo hanno scarse possibilità di libera espressione.
Come ci ricorda A. Cei (1998), nello sport molti allenatori pensano che un modo per valutare il buon affiatamento all’interno della propria squadra sia quello di osservare l’umore delle riserve: se anche l’ultima di esse è serena e soddisfatta, vuol dire che la squadra è unita e tutti i suoi componenti sono orientati al raggiungimento dell’obiettivo comune.
Ma come abbiamo visto precedentemente diversi fattori “influenzano” il buon andamento del gruppo.
Contrariamente al pensiero generale che ipotizza l’appartenenza ad un gruppo come fattore positivo per un lavoro comune, si è evidenziato come in determinate circostanze questo porti invece alla riduzione del lavoro comune. Questo particolare evento è stato definito

“pigrizia sociale”

che potremmo indicare come una particolare forma di disagio sociale (evidenziandosi soltanto in situazioni di gruppo) che, determinando una forma di riduzione dell’impegno individuale, va a generare degli esiti negativi sia sul singolo che sul gruppo.
Harkins, Latané, Williams (1980) hanno ipotizzato diverse interpretazioni per spiegare questi effetti negativi:
• strategia allocativa;
• strategia minima;
• strategia del free rider;
• strategia detta sucker effect.

Strategia allocativa: il soggetto è consapevole che la propria prestazione all’interno del gruppo, è uguale alla performance che può dare da solo. Quindi pur impegnandosi nel gruppo, si impegnerà al massimo nel lavoro individuale, dove potrà ottenere più visibilità.
Strategia minima: questa è la situazione nella quale gli individui cercano di impiegare la quantità minima delle proprie forze nel lavoro collettivo; l’attività di gruppo “maschera” il loro minor impegno e permette loro di non essere considerati pigri.
Strategia del free rider: riduzione dell’impegno al minimo ritenendo il proprio ruolo ininfluente e secondario per il risultato finale.
Strategia sucker effect: i soggetti tendono a ridurre il proprio impegno non volendo favorire chi si impegna poco. Chi attua questa strategia non accetta che i free rider si servano del loro impegno senza a loro volta metterne del proprio.

Carron (1988) ha evidenziato una maggiore diminuzione dei livelli motivazionali nel momento in cui i soggetti avvertono che il loro contributo non è ben identificabile, non (o poco) necessario al gruppo e non c’è proporzione tra il loro contributo ed impegno rispetto a quello degli altri componenti del gruppo. Chiaramente invertendo la situazione questa diminuzione dei livelli motivazionali viene decisamente limitata.
Hardy (1990) ha indicato alcune specifiche strategie per ottenere buoni risultati nel controllo dell’instaurarsi della pigrizia sociale:
• migliorare il livello di autoconsapevolezza del danzatore facendo in modo che il suo impegno individuale sia riconoscibile.
• ottimizzare il senso di responsabilità di ogni componente del gruppo, aumentando i rapporti di gruppo, l’impegno e la coesione al compito.
• are in modo che i compiti siano coinvolgenti, offrendo così ai danzatori compiti che rinforzino la soddisfazione e che sviluppino l’orgoglio di lavorare insieme (identità di gruppo).
• definire specifici obiettivi individuali e collettivi organizzando un programma di goal setting e fornire dei feedback sul loro raggiungimento.
• rganizzare riunioni sia collettive che individuali per poter comprendere le eventuali diminuzioni o cadute di motivazione e cercare così una possibile soluzione.
• fare in modo che ognuno abbia un ruolo specifico, identificabile e riconoscibile e che questo venga percepito positivamente e necessario da tutti.
• permettere a ognuno la libera espressione creativa, sentendosi appoggiati pur assumendosi le responsabilità delle conseguenze.
• offrire ai danzatori la possibilità di poter svolgere altre attività al di fuori della danza, che permettano di riposare e di recuperare mentalmente e fisicamente.

Concludendo, quindi, appare fondamentale per tenere sotto controllo il fenomeno della pigrizia sociale, sia negli sport di squadra che nelle compagnie o classi di danza, che l’autorealizzazione individuale venga soddisfatta e considerata parallelamente agli obiettivi comuni. Il modello di riferimento per la migliore riuscita di un gruppo è quindi quello dove, oltre agli elementi “migliori”, si riesce anche a sviluppare la migliore interazione tra i soggetti, fattore che appare determinante nello spirito del gruppo primario. Una “compagnia” una “squadra” non sono formate dai singoli ma dall’insieme e come ci insegna la scuola della Gestalt: “l’insieme non è solo la somma delle singole parti”.
Così non sempre i migliori giocatori o i migliori danzatori formano una squadra o una compagnia di successo.

“nessuno di noi è intelligente come tutti noi insieme”
(Proverbio giapponese)

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