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Marco D’Agostin, quando il corpo si muove con la memoria

Marco D’Agostin, quando il corpo si muove con la memoria

 

Marco D’Agostin è un artista attivo nel campo della danza e della performance. Dopo essersi formato con maestri di fama internazionale come Yasmeen Godder, Nigel Charnock, Rosemary Butcher, Wendy Houstoun, Emio Greco, ha iniziato la propria carriera come interprete, danzando, tra gli altri, per Claudia Castellucci/Socìetas Raffaello Sanzio, Alessandro Sciarroni, Liz Santoro, Iris Erez, Tabea Martin e Sotterraneo.

Dal 2010 ad oggi ha sviluppato la propria ricerca coreografica come artista ospite di numerosi progetti internazionali e ha presentato i propri lavori in numerosi festival e teatri europei. Nel 2018 vince il Premio Ubu come Miglior Attore/Performer Under 35.

Di qualche giorno fa la notizia che il suo spettacolo Best regards è stato nominato tra i finalisti del Premio Ubu come Migliore spettacolo di danza del 2021. 

Ciao Marco ci rincorriamo da tempo e finalmente ci conosciamo… Stimo molto il tuo lavoro e mi piacerebbe capire meglio in che modo nascono i tuoi spettacoli: qual è il primo motore della tua ricerca?

L’origine è diversa per ogni lavoro. All’inizio ci sono sempre delle immagini, da non intendersi come riferimenti o fonti iconografici ma come serbatoi, atmosfere chiare; è come se ogni lavoro partisse da un kit di desideri, ispirazioni e direzioni con un cuore molto forte al centro. Come diceva Chiara Castellucci, cerco di “ammalarmi delle mie idee”… perché è quel cuore che mi ossessiona; penso solo a quello e lo faccio fino a che diventa altro. Quello che cambia da spettacolo a spettacolo è la natura di questi serbatoi che si differenziano.

Ad esempio nel mio ultimo spettacolo, Saga, volevo lavorare su un paesaggio desertico e su cinque essere umani che vi arrivavano, avevo in mente un certo scorrere del tempo, desideravo suggerire il formarsi e il disfarsi una famiglia. 

E nella danza, come espressione del corpo, cosa porti nella tua ricerca?

Nella danza porto l’energia ai suoi estremi; in qualche misura danzo sempre come fosse l’ultima volta, sono io, sono fatto così, almeno fino ad oggi… magari invecchiando qualcosa cambierà!

Non mi dispiacerebbe trovare un modo di lavorare su intensità diverse ma sicuramente mi porto dietro lo scotto di aver iniziato a danzare molto tardi perché non mi è stato permesso di farlo: sono cresciuto in un contesto socio-culturale che non rendeva facile l’accesso a questo tipo di esperienza. Il desiderio è andato negli anni intensificandosi, non potendo essere esaudito, e ne è dunque emersa una danza feroce e vorace. 

Quando hai capito invece che non volevi solo danzare ma che volevi creare qualcosa che ti appartenesse totalmente?

Fin dall’inizio ho voluto diventare autore, sin da subito ho saputo che volevo creare dei miei spettacoli. Ho iniziato nel 2010 con lo spettacolo Viola, di cui ero anche interprete.

E quando non sei in scena tu, come lavori con i tuoi interpreti?

Lavoro con la memoria, mi interessa quando il corpo è mosso dai ricordi: lo trovo più vibrante, più denso, più trasparente. Mi interessa lavorare su tre tipi di passato: la memoria della nostra vita, che è il nostro serbatoio più potente: in questo senso invito gli interpreti a sentirsi sempre circondati e mossi da una folla di fantasmi. Il passato a noi più vicino, cioè quello che si stratifica mano a mano che una performance o una pratica vanno avanti: incoraggio chi lavora con me a considerare passato anche quello che è successo pochi secondi fa. E poi c’è una memoria che è pura funzione immaginifica, ovvero quella rivolta ai nostri avi, a chi prima di noi ha agito le nostre stesse mobilità. Alla base del mio lavoro con gli interpreti c’è il tentativo di trovare strategie di gemellaggio tra il pensiero e il corpo. 

Spesso collabori con Chiara Bersani, com’è nata questa collaborazione?

Siamo amici: 11 anni fa abbiamo iniziato a scriverci delle lettere, che si sono trasformate in scambi notturni in cui ci raccontavamo le nostre paure e i nostri desideri. Mi viene naturale parlare con lei di ogni processo creativo e dal 2015 ci siamo sempre resi partecipi l’uno dei progetti dell’altro. I nostri incontri avvengono spesso in circostanze domestiche davanti ad un caffè, ad un tè… dialoghiamo per ore e ore, entrando nell’esperienza dell’altro per aprire delle nuove possibilità.

È poi successo che hai persino creato uno spettacolo su una lettera?

Sì, Best regards, presentato in prima nazionale alla Biennale danza 2021, è una lettera scritta a qualcuno che non risponderà mai, un esercizio di memoria, una danza all’ombra di Nigel Charnock, performer e co-fondatore di DV8 Physical Theatre, scomparso nel 2012 e con cui ho avuto anche la fortuna di lavorare. 

In questo spettacolo ogni volta che vado in scena leggo una lettera scritta per il pubblico da Chiara di cui non so niente: leggendola per la prima volta mi metto nella stesse condizioni dello spettatore.

Per la tua ricerca il pubblico è un motore altrettanto importante?

Assolutamente. Voglio creare relazioni con il pubblico, voglio instaurare sempre un patto reale con gli spettatori, nel momento esatto della performance. Mi interessano le ragioni per cui quello sguardo va sempre cercato. E in tutti i miei spettacoli cerco un dialogo continuo con il pubblico.

Nei tuoi spettacoli dai anche ampio spazio alle parole, ai testi.

Sì, ma sempre in relazione alle necessità del lavoro e non in un’ottica di trans disciplinarietà. 

In ogni spettacolo c’è sempre una drammaturgia, che agisce come una struttura ossea: una rete di rimandi, una consequenzialità delle cose. Mi interessa che le cose siano chiare, quando parlo di chiarezza parlo di chiarezza del cuore. Se per farlo servono le parole, allora le uso. 

Per me danza è anche la parola o un gesto che facilita e accompagna la visione dello spettatore, senza un intento pedagogico, ma piuttosto con un intento di accompagnamento, un’azione congiunta in cui i cuori battono insieme. 

Per te danza è anche questo?

Non mi interessa capire cosa sia danza e cosa non lo sia ed è questo il motivo per cui continuo a muovermi nel mondo danza, talvolta anche accettando delle critiche: ogni spazio che sfugge alla definizione è sempre uno spazio di possibilità.

Quello che è importante per me è che si attivi sempre una dimensione empatica con lo spettatore, messo di fronte a un corpo che si disgrega in una fatica pesantissima. 

Di fatica e sport ne hai parlato spesso nei tuoi spettacoli, vero?

Sì, in First love ad esempio si parla dello sci di fondo. Sono stato sciatore di fondo agonista per dieci anni, pur non amando questa attività. Io credo che mi sia rimasta addosso una tendenza ad affrontare la scena come agonista anche in rapporto allo spettatore: di fronte ai suoi occhi tendo a creare una sfida per il mio corpo e a vincerla esaurendo tutte le energie. 

In Formazioni, invece, con Chiara Bersani abbiamo lavorato con squadre di giovani adolescenti: ci interessava addentrarci nelle loro dinamiche di gruppo per portare avanti una ricerca sulla forza dei sogni individuali quando devono cercare un compromesso nell’incontro con gli altri.

Noto anche che le scene nei tuoi spettacoli sono essenziali anche se di forte impatto visivo. Per quale ragione?

Agisco su uno spazio molto vuoto, che lo spettatore possa riempire delle proprie immagini. Il mio ultimo spettacolo, Saga, è il primo lavoro con una scenografia complessa, ma in questo caso l’ho utilizzata perché il dispositivo concorre al compimento dell’idea drammaturgica di base.

Pensi che la tua ricerca, che credo sia così originale, possa coinvolgere un “nuovo” pubblico?

Credo che il pubblico del futuro debba essere al centro di ogni riflessione. Credo che sia importante partire dal ruolo che ha il teatro oggi, e che il ragionamento da fare sia come raccontare che il teatro è un luogo in cui vivere. Io vedo il teatro come uno dei luoghi di vita della città dove i cittadini, anche i più giovani, possano vivere una parte della loro vita: non come un luogo “mistico”. 

Credo che chiunque possa avvicinarsi al mio lavoro perché la mia visione del mondo la allargo al pubblico… Faccio sempre il tentativo di consegnare le mie visioni e voglio consegnare al pubblico qualcosa che lo riguarda profondamente.

Lavori con i giovani? Conduci dei laboratori con i ragazzi?

Si mi piace molto condurre laboratori ma è un lavoro complesso e faticoso per me. Li faccio solo quando so di poter condividere, in maniera orizzontale, un tema o un principio di ricerca.

Progetti futuri?

Molte idee e progetti in cantiere. 

Per ora posso parlare dell’assolo che creerò per Marta Ciappina, che a proposito è la miglior pedagoga che conosca. Marta sa unire il rigore tecnico del gesto al peso emotivo della sua biografia: insieme andremo a raccontare la sua vita come fosse un romanzo coreografico.

Com’è nata questa idea?

È un’amica e me lo ha chiesto molto tempo fa. Durante le prove di Saga, di cui lei è interprete, abbiamo prodotto molto materiale che non è confluito nello spettacolo e abbiamo deciso di utilizzarlo in questa nuova creazione.

Mi sembra di capire che per te sia importante lavorare con gli amici…

Diciamo che lavoro con un amico, se l’amico è un artista straordinario!


 

Marco D’Agostin è attualmente in tournèe in Italia e in Francia e queste le date per poter apprezzare dal vivo il suo lavoro:

21 gennaio 2022 Best regards, CCN de Nantes, Nantes

29 gennaio 2022 First love, Teatro di Ragazzola, Roccabianca (Pr)

3 febbraio 2022 Saga, Klap, Maison pour la danse, Marsiglia

18 febbraio 2022 Best regards, Teatro Camploy, Verona

 

 

 

 

© Expression Dance Magazine - Dicembre 2021

 

Photo Credit © Alice Brazzit 

 

 

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