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Diego Salterini, anima italiana nella danza contemporanea americana

Diego Salterini, anima italiana nella danza contemporanea americana

 

Nato a Roma nel 1966, Diego Salterini è oggi un punto di riferimento nella danza contemporanea americana. Co-fondatore e direttore artistico della compagnia Dance NOW! Miami è anche docente, coreografo e anima instancabile della scena artistica di Miami, dove vive dal 1997. Il suo percorso non è lineare, né tantomeno previsto: inizia quasi per caso calcando le scene della televisione italiana degli anni d’oro poi si reinventa oltre oceano. Abbiamo ripercorso con lui una vita danzante, tra palchi, sale prove, voli transatlantici e momenti di ispirazione quotidiana.

Diego com’è nata la tua carriera nella danza?
La mia carriera nella danza è nata quasi per gioco, uno di quegli amori che si insinuano piano e poi ti travolgono. Non sono uno di quelli che ballavano sin da piccoli, almeno non sul serio. Certo, c’era il fascino della televisione: incantato da Maga Maghella e dalla Carrà (quella è una tappa obbligata!) e poi quegli spettacoli magici del sabato sera, da Luna Park a Strixx, passando per i varietà di Antonello Falqui degli anni ’70. Sono del ’66, per dare un po’ il senso del tempo. E poi l’arrivo di Heather Parisi è stato uno tsunami!

I miei genitori puntavano molto sullo sport, volevano che sia io che mia sorella ci provassimo: prima nuoto, poi judo, entrambi a livello agonistico. Facevo il mio dovere ma la verità è che non brillavo di entusiasmo. È stata la palestra a darmi il primo segnale vero: tra una lezione e l’altra, scoprii l’aerobica. Quello è stato il primo passo verso la danza.
Poi, da giovane adulto, approdo all’Allibi, storico locale gay romano, e lì ho conosciuto ragazzi del corpo di ballo della TV. Io ballavo bene in discoteca, avevo ritmo e fisico e, grazie a nuove amicizie, mi sono avvicinato ai veri danzatori. Sono stati loro a suggerirmi di assistere a una lezione di Roberto Salaorni allo IALS. Entrare lì è stato come mettere piede in un altro mondo. All’inizio ero intimidito. Ho impiegato un po’ prima di trovare il coraggio di pagare quelle diecimila lire e buttarmi. Ma poi l’ho fatto e da lì tutto è cambiato. Roberto è diventato un mentore e un amico. Mi ha aiutato a scoprire che quella era la mia vera strada.

Come ricordi i tuoi anni di danza in Italia?
Mi viene da sorridere: ci ho messo davvero tanto a dire ad alta voce “sono un ballerino”. Ero partito tardi e sentivo la pressione di dover recuperare. Salaorni mi ha dato tempo, ma, poi, quando ha capito che facevo sul serio, mi ha preso in carico davvero. Con lui ho imparato la disciplina e il valore del lavoro costante.
Ricordo gli anni ’90 come un periodo magico. Ogni coreografo passava dallo IALS per vedere le sue lezioni. Così è arrivato il mio primo provino per il programma Luna di Miele con Gabriella Carlucci. Cercavano ballerini alti e con bella presenza… brillare nella danza non era essenziale, diciamo… ma quella porta mi ha aperto il mondo. Non ho vissuto grandi traumi. Ho avuto la fortuna di lavorare con continuità, guadagnando rispetto. Non ero il ballerino più eccezionale, ma sapevo fare bene il mio lavoro. Questo, nel tempo, ha costruito una reputazione solida. Col senno di poi, posso dire che lasciare un buon ricordo è più importante di un virtuosismo.
La televisione stava cambiando e la danza ne usciva sempre più marginalizzata. Così, nel 1997, quando è arrivata l’occasione - complice una storia d’amore - ho scelto di lasciare tutto e partire. Volevo costruire qualcosa di più autentico.

Cos’ha significato vivere la danza in America?
Per me è stato profondamente trasformativo. Quando sono arrivato a Miami ho trovato una città giovane, affamata di cultura, in cerca di una nuova identità. Miami è un crocevia di culture, contraddizioni e influenze incredibili. Non è l’America che uno si aspetta: è un mondo a sé.

La grande tradizione della danza negli Stati Uniti si manifesta in particolare grazie al ruolo delle università e delle scuole d’arte: qui il ballerino moderno o contemporaneo passa quasi inevitabilmente
dall’Università, che è considerata un luogo prezioso dove non solo si imparano le tecniche, ma si studia con attenzione la storia della danza, le sue radici e i suoi sviluppi. In Italia, la realtà è ben diversa: il ballerino classico segue un percorso accademico più tradizionale, per esempio alla Scala, mentre chi vuole intraprendere la danza commerciale o teatrale si affida molto a contesti maggiormente legati alla televisione o alle compagnie. Qui invece le università sono una garanzia di serietà e di continuità culturale: scuole come la New World School of the Arts a Miami, la Juilliard a New York o il Boston Conservatory: sono veri e propri poli di conservazione e trasmissione del sapere coreutico. C’è una consapevolezza profonda della danza come patrimonio culturale. Molti colleghi italiani, ad esempio, non conoscono Ruth St. Denis o la tecnica Humphrey. Qui invece si parte da quelle basi. Questo approccio mi ha formato anche come coreografo e docente.

Dance NOW! Miami e Joffrey Ballet School: come sei arrivato a dirigere queste due realtà?
Arrivare a Miami nel 1997 per me è stato un vero salto nel buio… eppure, a ripensarci, è stato anche uno di quei cambiamenti che la vita ti mette davanti e che, se hai il coraggio di ascoltare la pancia, vanno colti al volo. C’entrava una storia d’amore, certo, ma soprattutto la voglia di respirare un’aria nuova e seguire davvero la mia passione per la danza. Praticamente sono atterrato e, nel giro di pochissimo, ho incontrato Hannah Baumgarten: ci siamo conosciuti al PAN-Performing Arts Network di Miami Beach e subito c’è stato un colpo di fulmine artistico con il suo background Juilliard, la sua tecnica Limón e Graham, la forza e la presenza scenica che trasmetteva.
Il PAN, con la direzione di Ilisa Rosal, mi ha dato subito una possibilità concreta: una sponsorizzazione per l’O1 Visa, grazie alla quale mi sono tuffato nella scena locale, ballando con compagnie come Ballet Flamenco La Rosa, Momentum Dance Company, Karen Peterson & Dancers. C’è stato spazio anche per qualche incursione nel mondo della pubblicità come modello e attore: a Miami bisogna sapersi “reinventare” ogni giorno!
Nel frattempo, con Hannah, ci siamo dedicati completamente alla nostra idea di compagnia: piccoli progetti, una crescente rete di collaborazioni, ballerini attratti dal nostro modo di lavorare e, quasi senza accorgercene, siamo diventati una realtà stabile. Nel 2000 Dance NOW! Miami è diventata ufficialmente una non-profit e da lì non ci siamo letteralmente più fermati un attimo: sala prove, spettacoli, festival, progetti educativi e ogni stagione con nuovi sogni e nuove sfide.
Per quanto riguarda la Joffrey Ballet School di New York, è stata un’altra di quelle svolte che arrivano perché, lavorando bene e con passione, prima o poi qualcuno si accorge di te. Grazie a colleghi con cui eravamo entrati in sintonia “coreutica” è nata la collaborazione che ci vede oggi, con Hannah, alla guida di due programmi estivi: Joffrey Italy e Joffrey Miami, veri punti di riferimento per giovani danzatori da tutto il mondo.
La quotidianità? In sala è un turbine: prove, lezioni, momenti di confronto creativo. Ci si alterna tra la disciplina rigorosa e quella scintilla improvvisa che solo la danza sa dare quando, tra una diagonale e un lavoro di gruppo, scatta la magia. Fuori dalla sala la vita è altrettanto intensa, fatta di incontri, organizzazione, mail, progetti da far quadrare tra artisti, partner e nuove generazioni che bussano alla porta. Ma la soddisfazione più grande è proprio questa: vedere la danza diventare ogni giorno un “ponte” tra storie, culture e generazioni. E allora davvero ogni fatica vale la pena.

Da dove trae ispirazione il tuo lavoro?
Dalla vita vera. Dai dolori, dalle gioie, dai momenti ordinari. Ma anche dalla responsabilità: dirigere una compagnia no-profit finanziata da fondi pubblici e privati significa essere sempre “accesi”. Non posso aspettare l’ispirazione in stile bohemien. Devo essere pronto a creare e offrire qualcosa che abbia valore per la comunità. La danza è arte, ma anche lavoro. Abbiamo una squadra da sostenere: artisti, tecnici, costumisti, musicisti. La mia ispirazione nasce anche dalla concretezza. Poi, certo, la musica e i danzatori fuori dal comune sono stimoli potenti. Ma anche il dubbio, la fragilità, l’insicurezza iniziale fanno parte del processo.
Alla fine, non so bene come, il pezzo che doveva nascere prende forma e spesso (ma non sempre!) posso guardarlo con soddisfazione, sapendo che dentro ci sono tutte le sfumature di quello che ho vissuto. E’ questo il bello: trovare ispirazione proprio nella realtà, con i suoi alti e bassi, facendo sì che ogni creazione sia un ponte tra quello che vivo io, quello che cerca chi danza accanto a me e quello di chi ci guarda da fuori.

Ormai vivi in America da quasi trent’anni. Com’è cambiato il mondo della danza in questo tempo? Hai notato un’evoluzione nel pubblico?
Sì, sono passati quasi trent’anni, anche se sembra ieri. Il mondo della danza è cambiato, ma certi valori sono rimasti. Dal 1997 a oggi il mio lavoro e il panorama della danza in America sono cambiati, ma anche restati solidamente ancorati alle loro radici. L’evoluzione è naturale: ci sono nuovi stili, contaminazioni e linguaggi che avanzano, ma nella danza moderna e contemporanea americana rimane un profondo rispetto per i grandi maestri come José Limón, Martha Graham, Merce Cunningham e Paul Taylor. Tutta la scena, soprattutto quella più “seria” e teatrale, continua a prendersene cura, a studiarli e a usarli come pilastri tecnici e creativi su cui costruire nuove idee.
Il pubblico, però, è difficile da conquistare. I talent show hanno reso la danza “popolare”, ma in modo frammentato. Pezzi brevi, spettacolari, “facili”. Portare qualcuno a teatro a vedere 45 minuti di danza contemporanea è un’altra storia. A volte scatta il pregiudizio: sarà strano? Mi annoierò? Il balletto classico invece rassicura il pubblico: se parli di “Schiaccianoci” o di balletti classici, la platea risponde perché sanno cosa aspettarsi… la favola, i tutù, la musica dal vivo, lo sfarzo. La danza contemporanea, invece, può “spaventare”. Ma chi viene ai nostri spettacoli spesso torna: significa che qualcosa “arriva”. Anche con risorse limitate spettanti a realtà più piccole come la nostra di Dance NOW! Miami stiamo creando una comunità con un pubblico di nicchia di veri appassionati che ha voglia di sperimentare.
L’evoluzione c’è ma quello che davvero resta è la volontà di andare avanti senza dimenticare da dove siamo partiti. La danza qui in America resta un terreno sorprendente: tradizione e innovazione si sfidano e si incontrano ogni giorno e questo, forse, è il bello di farne parte.

Torni spesso in Italia? Cosa significa per te essere cresciuto lì?
Torno tutte le volte che posso. L’Italia è casa, qui ci sono le mie radici. Anche se ora vedo certe cose “con occhi stranieri”, in piccole abitudini, modi di parlare, il tempo vissuto diversamente, nei valori, nei gesti e nella sensibilità resto profondamente italiano.
Essere cresciuto in Italia mi ha dato un patrimonio di cultura e bellezza, di storia, di cucina, di gesti che mi porto dietro ovunque vado. La nostra estetica, il nostro senso del dramma e della leggerezza non li trovi facilmente altrove.
Ogni ritorno è una festa, una ricarica di energia e di ricordi. Anzi, lo penso spesso: quando sarà il momento di “appendere le scarpe al chiodo” non escludo affatto che il mio ultimo capitolo lo vorrò scrivere proprio in un piccolo paese italiano, immerso nella semplicità e nel calore di casa.

Cosa ti dà ancora la danza?
Quello che mi dà ancora la danza dopo tanti anni è un’energia che non somiglia a niente di quello che si trova altrove: è una miscela di adrenalina, soddisfazione e curiosità che si rinnova ogni giorno. C’è qualcosa di speciale nel varcare la soglia della sala prove, nel rimettere il corpo in ascolto, nell’essere cosciente che ogni giorno è una nuova scoperta: c’è sempre qualcosa di nuovo da imparare o un’emozione diversa da esprimere. La danza, con la sua disciplina e il suo bisogno costante di dedizione, ti spinge a stare nel “qui e ora”, a vivere ogni passo con presenza, trasformando la fatica in espressione e la tecnica in emozione.
Rispetto a ieri però dopo oggi la danza mi da in più da anche tanti dolori e quindi anche tanto tempo dedicato a massaggi, terapie, bagni gelati, pezze calde e tutto quello che devi fare quando il corpo decide ingiustamente di invecchiare e tu, invece, vuoi ancora fare i Grand Plié! ⬢

 

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