La danza di Jay Asolo esprime energia e libertà ed è in grado di coinvolgere ed emozionare chiunque abbia di fronte. Originario della Nigeria, scopre presto la passione per la danza ed è in Irlanda che si specializza in Raw Hip Hop, New Jack Swing, Krump, Lockin’ e African Afro Bounce. Ballerino, coreografo e insegnante molto apprezzato, allena crew in vista di concorsi hip hop e artisti quali Ronan Keating e Mikey Graham dei Boyzone, oltre a realizzare coreografie per il “Ryan Tubridy Tv Show”.
Jay, è vero che ti sei avvicinato al mondo della danza grazie al geniale Michael Jackson?
«Sì. Ho sempre avuto un’attitudine per il movimento e per la danza sin da quando avevo cinque anni. Ricordo ancora il giorno in cui mio padre portò a casa la videocassetta di Michael. Mi innamorai perdutamente del Moonwalk, il suo passo di danza, utilizzato in diverse coreografie. Una movenza che l’artista ha perfezionato nel corso della sua carriera, rendendola famosa in tutto il mondo. Semplicemente provando a imitarlo, ho iniziato a ballare!».
JAY ASOLO AL CONCORSO EXPRESSION E A CAMPUS 2018
Jay Asolo sarà tra i giurati del Concorso Expression a Firenze dal 23 al 25 febbraio 2018 e assegnerà alcune borse di studio per l’evento “Shockk Hip Hop Summer Workshop” che si terrà nell’agosto 2018 a Dublino, in Irlanda. Maggiori informazioni su www.concorsoexpression.com
Inoltre a luglio 2018 terrà lezioni di hip hop a Campus Summer School al Centro Studi La Torre di Ravenna. Maggiori informazioni a questo link >
Quali sono le esperienze che più ami ricordare del tuo percorso artistico e professionale?
«Senza dubbio, non posso non citare una delle collaborazioni più importanti, quella con i Boyzone, una boyband irlandese nata negli anni Novanta che ha all’attivo oltre 20 milioni di dischi venduti. Ma ho avuto anche la possibilità di creare numerose coreografie per spettacoli trasmessi dalla tv irlandese, di condurre seminari di danza in tutto il mondo e di allenare ballerini professionisti per rappresentare l’Irlanda in vista dei campionati mondiali di hip hop a Las Vegas 2014, classificatisi al sedicesimo posto. È stato importante, nel mio cammino, anche prepararmi fianco a fianco con alcuni rappresentanti della cosiddetta Old Generations della cultura hip hop, creatori quali Tight Eyex, Nig Mijo, Flo Master e molti altri».
Cosa rappresenta la danza per te?
«È certamente il modo migliore per sentirmi libero. È una meravigliosa arte. Ed è anche qualcosa di altamente terapeutico perché consente di esprimere se stessi senza doversi trattenere, senza freni. La danza è qualcosa di molto di più di un insieme di movimenti, è un miscuglio di sentimenti contrastanti».
Sotto il termine hip hop si nasconde tutta una serie di definizioni, modi pensare e stili. Cosa rappresenta per te l’hip hop?
«È prima di tutto un’educazione, così come la conoscenza degli stili, della storia, dei padri fondatori e dei cinque elementi distintivi che sono MCing, djing, breaking, graffiti e beatbox. Ma soprattutto l’hip hop è una incredibile cultura e il suo bello è che non importa dove sei perché, attraverso l’hip hop, si parla la stessa lingua».
Per molti di coloro che hanno avuto la possibilità di vederti ballare, sei ‘l’hip hop personificato’. Come ti piace descrivere il tuo stile di danza?
«Questa è una domanda molto difficile… Credo che il mio stile sia un misto di hip hop e krump, che simpaticamente mi piace chiamare ‘Raw hip Hop’ perché mi piace la crudezza dell’hip hop. Attraverso queste due tecniche riesco a far venire fuori i miei sentimenti».
Hai creato una tua compagnia che si chiama ADC – Asolo Dance Connection. Che cosa rappresenta?
«Sono molto orgoglioso di aver dato vita a un gruppo in cui i danzatori possono studiare, mettersi in mostra, confrontarsi, crescere, esprimersi e sentirsi liberi mentre danzano. D’altra parte, questi sono gli obiettivi che chiunque si avvicini o prosegua il suo percorso nella danza, dovrebbe darsi».
Hai un sogno o un desiderio che ancora non hai realizzato?
«Sogni e desideri spesso si confondono e diventano la stessa cosa… Mi piacerebbe tanto vincere la medaglia d’oro o essere tra i primi tre all’Hip Hop International Dance Championship promosso dal creatore dell’America Best Dance Crew».
A cosa stai lavorando in questo momento e quali progetti hai per il prossimo futuro?
«Sto ultimando un video musicale per un grande artista nigeriano e sto anche preparando una crew in vista del World Championship 2018 in Arizona. Guardando avanti, mi vedo sempre impegnato al fianco di vari ballerini di tutto il mondo con cui creare divertenti lavori insieme».
Come si svolge la tua giornata tipo e cosa ti piace fuori oltre alla danza?
«Le mie giornate, purtroppo, volano via in fretta a causa degli incalzanti impegni, caratterizzati per lo più dalla formazione di ballerini. Appena riesco a ricavarmi un po’ di tempo, mi piace seguire e praticare la boxe, giocare a football e a ping pong».
A tuo avviso, quali sono le qualità che un giovane ballerino dovrebbe avere per diventare una ‘star’?
«Senza dubbio: passione, desiderio di studiare qualsiasi stile di danza, costanza e perseveranza nell’allenamento, musicalità e ritmo. Se poi è un curioso, sempre pronto a conoscere le origini dei vari stili di danza e a saperne di più sui loro creatori, ancora meglio. E se facendo tutto questo si diverte pure, si chiude il cerchio perfetto».
Cosa pensi della danza in Italia?
«Il vostro è un Paese dove esiste un livello molto buono, dove i ballerini sono appassionati e affamati di dare il meglio di sé quando sono sul palcoscenico. E questo mi piace molto!».
© Expression Dance Magazine - Dicembre 2017
Forse è uno dei sodalizi più longevi nel mondo della danza francese, quello fra il coreografo Claude Brumachon e il danzatore Benjamin Lamarche – iniziato nel 1981 – che tuttora continua con rinnovata energia e creatività. Dopo aver condiviso per 23 anni l’esperienza al Centre Chorégraphique di Nantes, il duo ha fondato l’associazione “Sous la Peau” e la compagnia di cui sono entrambi direttori artistici. Dallo scorso anno sono anche coreografi associati dei Centres Culturels de Limoges.
Com’è nato artisticamente Claude Brumachon?
«Avevo appena 17 anni quando mi sono avvicinato al Ballets de la Cité di Rouen durante uno stage intensivo con i ballerini della compagnia. La coreografa Catherine Atlani mi ha subito proposto un contratto di formazione di due anni. Una vera sorpresa per me, visto che inizialmente mi dedicavo alle Belle Arti, in particolare al disegno e alla pittura. Ho quindi dato una svolta alla mia vita e mi sono ritrovato ballerino quasi per caso. Ma è stato veramente un caso?».
Avvicinato all’attività professionale da danzatore quasi senza volerlo, come ha scoperto il suo talento coreografico?
«Molto presto alcuni ballerini della compagnia che mi formavano, mi hanno incoraggiare a creare. E qualche anno più tardi, a partire dal 1983-84 effettivamente mi è capitato di vincere dei concorsi quali il Bagnolet. Ma l’incontro decisivo in tal senso è stato quello con Benjamin Lamarche. Insieme abbiamo deciso di portare avanti questa ricerca artistica e di mostrare il mondo e il corpo così come lo immaginavo in questo universo danzante».
Quali altri maestri sono stati decisivi?
«Senza dubbio Hideyuki Yano che mi viene ancora spesso in mente e che ha fortemente influenzato il mio modo di pensare quando coreografo. Molto importante è stata anche l’esperienza all’American Center di Parigi durante alcuni atelier coreografici, in cui ho molto appreso di Suzan Buirge. Una qualche influenza l’hanno poi avuta anche i grandi maestri della pittura, della scultura e del cinema, arti che sento molto affini».
L’incontro nel 1981 a Parigi con Benjamin Lamarche è stato fondamentale, visto che è diventato da allora fino a oggi il suo interprete preferito e assistente in tutte le sue creazioni. Come si è evoluto o è cambiato nel corso degli anni questo rapporto?
«Abbiamo fondato una compagnia, ‘”Sous la Peau”, di cui siamo entrambi direttori artistici, così come lo siamo stati per 23 anni al CCN di Nantes. Il nostro ‘duo’, ormai molto collaudato, si è quindi imposto presto nelle danza, nel modo di pensare l’arte e l’organizzazione di tutto ciò che ci circonda. Abbiamo sempre condiviso tutto. Il nostro rapporto è totalmente complementare nella creazione così come nella trasmissione delle opere. Anche se è sempre rimasto chiaro e senza equivoci che Benjamin è prima di tutto un interprete dei lavori che coreografo. Lui ci tiene moltissimo a rivendicare il suo essere danzatore e non coreografo».
Cosa rappresenta la danza per voi?
«La danza è uno spazio cittadino d’espressione delle libertà. Permette di prendere il volo. C’è la ricchezza del gesto che permette qualsiasi lettura. Fuori dalla parola, fuori dalla cultura stessa. La danza è uno strumento che permette di mettere in contatto popolazioni spesso molto differenti. Favorisce la convivenza. La danza è anche un impegno, un’azione militante. Ma soprattutto una passione poetica che permette di vivere, di contemplare e riunire il corpo e lo spirito».
CLAUDE BRUMACHON AL CONCORSO EXPRESSION 2018: Ci sarà anche Claude Brumachon, per la prima volta, tra i giurati del concorso Expression 2018, organizzato dall’IDA – International Dance Association nell’ambito di Danzainfiera a Firenze dal 23 al 25 febbraio. Per l’occasione, il noto coreografo sceglierà alcuni giovani di talento per affiancare la compagnia Brumachon-Lamarche nel luglio 2018, durante una fase di creazione del nuovo progetto a Parigi.
Info su www.concorsoexpression.com
Dal 1992 al 2015, avete diretto il Centre Chorégraphique National di Nantes. Un bilancio di questa esperienza?
«È molto difficile riassumere 23 anni di direzione. Di certo, è stato un pezzo molto importante e intenso della nostra vita. Ricco di incontri a livello internazionale, di viaggi geografici, culturali e immaginari. Quando si dirige un centro coreografico le cose possibili sono respinte e quelle impossibili spesso diventano possibili. Questo permette di esplorare terreni sconosciuti. Anche se ovviamente stiamo parlando pur sempre di un’istituzione con tutte le sue contraddizioni. E l’artista, in questa istituzione, può smarrire il suo animo. Spetta a lui saper rimanere vigile e far fronte alle difficoltà della burocrazia. Verso la fine del nostro mandato, abbiamo scritto un libro dove abbiamo fatto un bilancio molto ludico e veritiero».
Le vostre creazioni si ispirano alla natura, agli esseri viventi, agli uccelli. Com’è nata la passione per l’ornitologia?
«È stato Benjamin a mettere per primo in evidenza questi concetti. Poi questa visione si è incrociata con ciò che mi affascinava e su cui mi interrogavo. Ho sempre pensato che il danzatore sia molto vicino all’animale nella sua istintività, nella sua velocità, nei suoi movimenti fulminanti. Ho spesso colto in mezzo alla natura il senso del selvaggio e dell’essere vivente. È qualcosa di sconvolgente e di molto simile all’atto danzato. Ricerco spesso nei miei lavori questo stato di natura perso, o forse dovrei dire stato di umanità prima della civilizzazione: il movimento primario arcaico».
Amate anche molto citare Pier Paolo Pasolini. Perché?
«È il mio maestro del cinema. Tra i 17 e i trent’anni, è stato il mio riferimento assoluto. Ha saputo rendere sullo schermo e nei suoi pensieri la violenza, la tenerezza, la crudezza, l’umanità, l’ingenuità, l’innocenza, anche il fatto di essere calpestato, senza abbellimenti. Adoro il modo diretto che ha di riprendere. Questo rispetto enorme della semplicità: la ricchezza povera o la povera ricchezza. Ma sono molto legato anche a Fellini e a Visconti».
C’è poi la passione per l’arte…
«Sì, ho sempre avuto un’attitudine per la pittura e la scultura. La mia iniziale educazione è essenzialmente pittorica. Per questo nelle mie coreografie compaiono spesso dei riferimenti alle immagini di alcuni artisti visionari come Bacon, Gericault, Bourdelle, Zadkine, Camille Claudel e… ovviamente Michelangelo».
Una creazione del cuore?
«Arrivato a quasi 110 lavori, è difficile isolarne uno. Potrei citare “Texane” o “Folie” che segnano un po’ le origini della mia gestualità, in cui è più evidente il mio segno, il mio stile. Ma mi vengono in mente anche “Icare”, un assolo creato per Benjamin e “Le festin”, impressionante messa in scena. Ma sono anche molto affezionato agli ultimi, fra cui “Mutant et d’indicibles violences”, che rappresenta un altro modo di scrivere la danza».
Le doti di un buon allievo?
«Un giovane che aspira a danzare a livello professionale deve essere curioso, disponibile, appassionato del gesto e del corpo. Ma deve anche essere in grado di mostrare l’energia della vita, il piacere di danzare prima del desiderio di carriera».
Un sogno che ancora non si è realizzato?
«A seguito della creazione di “Carmina Burana” per il balletto del Grand Théâre di Ginevra nel maggio 2006, mi piacerebbe molto fare un “Romeo e Giulietta”».
A quali lavori vi state dedicando attualmente e quali sono i vostri obiettivi futuri?
«Abbiamo appena terminato un lavoro con giovani giapponesi Down. Una grande riflessione sull’arte, la salute e la cittadinanza, per capire come l’arte possa migliorare la vita, come la danza permetta delle aperture inimmaginabili. Ora mi sto dedicando alla creazione per un trio con un violinista in scena. È la prima volta che lavoro con un musicista e che esploro il mondo musicale di Bartok e di Ben Haïm, ed è molto interessante. Poi mi dedicherò a una creazione sulla migrazione, un problema molto sentito, sul quale c’è ancora necessità di riflettere. Si pensa spesso alla migrazione legata alla guerra, alla povertà, ma presto anche la questione climatica si farà sentire, pensiamo all’innalzamento del livello dell’acqua… Benjamin e io ci stiamo inoltre impegnando a promuovere la danza nel territorio del Limousin-Nouvelle Aquitaine, perché c’è ancora molto da fare per far conoscere questa arte al grande pubblico e farla uscire da una visione troppo elitaria. L’anno prossimo, infine, ripartiremo per il Cile per una nuova creazione con i ballerini del posto a cui siamo molto affezionati».
Cosa pensate della danza italiana?
«Non possiamo dire di conoscere bene la realtà italiana nel suo complesso. Ci è però capitato di incontrare tanti danzatori italiani, collaborando con compagnie, balletti e scuole. Nelle loro vene scorre un sangue bollente e la loro danza è molto appassionata. E sono generosi nel donarsi al pubblico, oltre che molto abili tecnicamente. In una parola: emozionanti!».
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I primi a ottenere una qualifica professionale riconosciuto a livello nazionale ed europeo
Si è conclusa con successo la prima edizione del corso di formazione professionale per danzatore con specializzazione in coreografia che si è svolta nella sede di I.D.A a Ravenna, da ottobre 2016 al novembre 2017, per un totale di 200 ore.
Grazie al ricco percorso formativo , i partecipanti hanno avuto la possibilità di seguire seminari che hanno alternato materie fondamentali ad altre collaterali e complementari, avendo così la possibilità di approfondire gli strumenti necessari alla scrittura coreografica, all’analisi del movimento, allo studio di stili e tecniche differenti.
Il corso, diretto dalla danzatrice, coreografa e docente di danza contemporanea Emanuela Tagliavia, è stato tenuto da: Daniele Bestetti, lighting designer, tecnico e docente di illuminotecnica; Paolo Mohovich, danzatore e coreografo; Renata M. Molinari, scrittrice, drammaturga e docente teatrale; Davide Montagna, danzatore, coreografo e docente di contemporaneo; Laura Moro, danzatrice, coreografo e docente di ricerca coreografica; Linda Ricciardi, scenografa e costumista; Giampaolo Testoni, compositore; Carmelo Antonio Zapparrata, giornalista e critico di danza; Lorella Rapisarda, insegnante, coreografa e docente del metodo Laban/Bartenieff.
Un corpo docente di alto livello che ha saputo offrire i giusti stimoli e spunti utili agli allievi-danzatori, desiderosi di meglio conoscere gli aspetti del lavoro coreografico in ambito contemporaneo.
Per i diplomati, in possesso di una prestigiosa qualifica professionale riconosciuta a livello nazionale ed europeo 5° EQF, rilasciato dalla Regione Emilia Romagna, si aprono maggiori prospettive sul mercato della danza che è sempre più competitivo. Specializzazione e flessibilità sono infatti due requisiti chiave per giocarsi al meglio le proprie carte.
Grazie a tutti gli insegnanti e ai partecipanti dall’IDA!
Forte dell’alto numero di richieste e dell’importanza del titolo in questione, nel 2018 sarà proposta una seconda edizione del corso, rivolta a danzatori maggiorenni – di tutte le regioni italiane – che dimostrino di avere un curriculum artistico coerente con il percorso da intraprendere.
I candidati interessati possono inviare il proprio cv a fomazione@cslatorre.it / danza@idadance.com.
Maggiori informazioni a questo link >
(Foto di Franco Covi)
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Le testimonianze degli allievi Eleonora Argiolas e Francesco Troilo, entusiasti del percorso intrapreso per specializzarsi nell’insegnamento e i consigli della docente Elisabetta Ceron
Ha preso il via durante l’estate a Ravenna nella sede dell’IDA – International Dance Association, il primo corso di qualifica per maestro di danza, promosso dal Centro Studi “La Torre” insieme a ISCOMER di Ravenna, riconosciuto dalla Regione Emilia Romagna, valido a livello regionale, nazionale ed europeo e finanziato dal Fondo Sociale Europeo. Si tratta di un importante traguardo perché è la prima volta in Italia che un corso, riconosciuto a livello giuridico, conferisce una prestigiosa qualifica in grado si aprire nuove prospettive professionali. Nel dettaglio, la nuova qualifica professionale definisce quella figura tecnica – nell’ambito dello spettacolo – in grado di progettare e condurre lezioni di danza classica, moderna e contemporanea, graduando gli obiettivi didattici in relazione alle caratteristiche psico-fisiche degli allievi. Al termine del percorso, ai 25 allievi selezionati, sarà rilasciato un titolo valido a livello nazionale ed europeo 6° livello - EQF. Il corso, durante il quale sarà data particolare rilevanza agli stage pratici, si sviluppa in 500 ore e propone i seguenti contenuti: configurazione percorso di danza, conduzione delle lezioni, preparazione alla produzione dello spettacolo, valutazione dei risultati dell’apprendimento, storia della danza e della musica, igiene della persona e degli ambienti, principi di corretta alimentazione, codice deontologico, principi di anatomia, fisiologia del movimento, psicomotricità, traumatologia, la sicurezza sul lavoro, tecniche di ricerca attiva del lavoro. Al corso sta partecipando Eleonora Argiolas (31 anni), di origine sarda ma da tempo residente a Ravenna. Alle spalle ha una laurea in Scienze Motorie e il diploma dell’IDA Ballet Academy, così come la frequentazione di diversi corsi di Pilates. Già da tempo insegna danza ai bambini e Pilates agli adulti. «Studio danza sin da bambina – racconta –, ma ho sempre avuto una particolare predilezione per l’insegnamento. Coerentemente con il mio carattere dinamico, sempre aperto alle nuove sfide, e con il mio desiderio di allargare le conoscenze, ho intrapreso questo nuovo percorso come se fosse una sfida, convinta di poter dare punti in più a una figura professionale spesso sottovalutata. All’estero non è così: l’insegnante di danza è rispettato e ben reputato perché ha un ruolo di grande responsabilità, se si considera che ha a che fare con i bambini molto piccoli, quasi come se fosse un educatore a tutto tondo. Da noi, spesso si trascurano questi aspetti, a causa di tanti insegnanti che si improvvisano tali dopo appena due anni di danza e quindi senza avere le necessarie basi». Questo finora è stato possibile a causa della mancanza di una normativa in grado di regolare una materia così delicata, ma ora le cose stanno cambiando. «Un inquadramento giuridico – aggiunge Eleonora – può certamente offrire un certo tipo di garanzie, quanto meno una preparazione adeguata, ma senza mai dimenticare l’importanza della passione. In giro ci sono troppi insegnanti che per l’appunto insegnano solo perché non sono riusciti a realizzare gli altri loro sogni artistici. Non c’è solo la tecnica, la conoscenza, ma anche l’amore per ciò che si fa». Eleonora è soddisfatta del lavoro intrapreso, che le ha consentito per esempio di avvicinarsi al contemporaneo con Emanuela Tagliavia, oltre che di ricevere nuovi spunti a livello didattico. “Il sabato svegliarmi e sapere di andare al corso, per me è molto appagante”, rivela.
Nel 2018 partirà il nuovo corso di qualifica di "Maestro di danza" valido a livello regionale, nazionale ed europeo, aperto a candidati maggiorenni in possesso di un curriculum artistico coerente con il percorso da intraprendere. Il corso rilascerà la certificazione valida ai fini dell'abilitazione all'insegnamento della danza in Italia secondo la Legge approvata dalla Camera in data 8 novembre 2017. Maggiori informazioni a questo link >
Anche Francesco Troilo (27 anni), di origini pugliesi ma residente a Monte Colombo in provincia di Rimini, è entusiasta. Proprio l’amore per la danza, scoperta a 8 anni, lo ha portato a trasferirsi da Bari alla Romagna, al seguito della compagnia di musical Ragazzi del Lago. «Mi sono avvicinato all’insegnamento affiancando i miei maestri – racconta –, occupandomi dei più piccoli nelle scuole di danza ma anche in alcune scuole dell’infanzia. Già da tempo avevo intenzione di fare un percorso specifico per l’insegnamento che reputo l’ideale proseguo della carriera di ballerino. Il corso di maestro di danza mi ha subito attirato per l’ottimo riconoscimento giuridico che garantisce, ma anche per il grande prestigio del corpo docenti. Pur avendo già un bagaglio completo nella danza, sto approfondendo gli aspetti del lavoro fisico sul corpo e sull’approccio psicologico con l’allievo, in modo del tutto nuovo. Sono ‘sorprendentemente’ sorpreso».
Tra i numerosi docenti del corso di maestro di danza, c’è Elisabetta Ceron che si è sentita molto gratifica trovandosi di fronte allievi così entusiasti e curiosi, nell’apprendere principi sia educativi sia metodologici della propedeutica di cui si occupo. Nel complesso, una classe eterogenea con allievi di diverse età e percorsi formativi in varie discipline della danza che hanno subito formato un bel gruppo affiatato e coeso. «Sono rimasta colpita – afferma – dal modo garbato e attento con cui mi hanno posto domande mirate e specifiche, il che denota una grande consapevolezza. I partecipanti si sono dimostrati anche molto preoccupati di poter intervenire in modo corretto nei confronti dei piccoli allievi, coscienti del ruolo prezioso che rivestono anche come educatori. Forte del comune vissuto, ho molto interagito con la classe, mettendomi in gioco in prima persona. Ne è scaturita una maggiore sintonia, nonché uno scambio prolifico di idee ed esperienze». Ceron reputa positivi anche gli ultimi sviluppi legislativi in materia di insegnamento della danza. «La danza è una disciplina molto diffusa e sentita – ritiene –. Ma esistono percorsi, come quello che stiamo portando avanti, che devono essere fatti se ci si prende la responsabilità di avvicinarsi ai ‘piccoli corpi’. Non è possibile che ragazzi molto giovani e privi di esperienza abbiano a che fare con i bambini, i futuri danzatori. Il lavoro dell’adulto deve rispettare la crescita del bambino che è un piccolo discepolo. Il maestro è una figura che ‘dura’ tutta la vita, grazie a quel processo di imitazione che è molto forte nei più piccoli. Incontrare un cattivo maestro, è quanto di deleterio possa capitare».
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Centinaia di appassionati di danza da tutta Italia per il classico appuntamento con la danza del mese di dicembre dell’IDA. Alto il gradimento dei docenti, fra cui molti nomi noti anche al pubblico televisivo
È stato un ponte dell’Immacolata all’insegna della danza a Ravenna con lo stage internazionale “Expression”, dall’8 al 10 dicembre, nelle sale del Centro Studi “La Torre” di via Paolo Costa 2, sede dell’IDA – International Dance Association. Centinaia di giovani appassionati da tutta Italia, fra allievi e insegnanti, si sono dati appuntamento per studiare, perfezionarsi e confrontarsi in un contesto di assoluta qualità. Da mattina a sera, i partecipanti hanno avuto la possibilità di provaree tutti gli stili dal classico al modern, dal contemporaneo all’hip hop, dalla contact improvisation al tip tap. L’edizione 2017 di Expression ha presentato un’offerta formativa notevolmente arricchita, per soddisfare le esigenze di tutti gli appassionati di danza, dai giovanissimi agli adulti, dai praticanti agli insegnanti. Oltre al tradizionale stage con lezioni pratiche e alle lezioni riservate agli under 12, sono stati proposti percorsi di approfondimento per insegnanti. Tre diverse modalità di studio, fra cui è stato possibile scegliere per consentire la migliore crescita tecnica e artistica. Tanti i nomi di richiamo, alcuni dei quali relativi a veri e propri beniamini dei giovani appassionati di danza. Daniel Agesilas ha condotto lezioni di classico accompagnato da un pianista, mentre Kledi Kadiu, noto ballerino televisivo, quelle di modern proponendo coinvolgenti coreografie. Ci sono stati anche Roberta Fontana, nota per lo stile modern energico, Carla Rizzu per il contemporaneo che ha spiegato i segreti della spirale e anche della contact improvisation insieme e Giovanni Gava, e Tony B. per il tip tap in contact. Matteo Addino ha proposto nuove lezioni di modern contemporaneo insieme a Giulia Pelagatti, ex concorrente del talent show “Amici di Maria de Filippi”, scelta di recente per un film di Bollywood.
«Partecipo sempre con entusiasmo agli stage dell’IDA – racconta la docente Marika Ferrarini (37 anni) di Ferrara, che si è diplomata insegnante di modern e di contemporaneo con l’IDA -. Con grande piacere ho rincontrato la docente Roberta Fontana con cui mi ero trovata molto bene anche in passato. Ed è stata anche la mia prima volta con Kledi. Che dire? Lui è molto paziente e disponibile, sempre pronto a dare spiegazioni. Credevo che fosse più difficile cimentarsi con le sue coreografie che ho trovato invece molto fluide e coinvolgenti». Un parere condiviso anche dalla 25 enne Rachele Bergami di Bondeno. «Kledi è stata una meravigliosa scoperta anche per il suo carattere davvero delizioso – afferma -. Una conferma invece Fontana per la tecnicità e l’intensità delle sue coreografie. Ho imparato molte cose anche seguendo le lezioni di contact improvisation, disciplina a cui già da un po’ di tempo mi sono avvicinata. Proseguirò certamente in questa direzione, sperando un giorno di poter passare da assistente a docente».
Nelle giornate di sabato e domenica, l’Hip Hop Lab ha proposto una panoramica delle danze urbane-free style-popping per consentire ai partecipanti di ricercare lo stile preferito. Oltre all’ospite speciale Iron Mike, ballerino di grande talento, vincitore di numerose competizioni internazionali di hip hop, per la prima volta a Ravenna, sono stati presenti Daniele Baldi e Ilenja Rossi dell’Hip Hop School IDA.
Lezioni speciali sono state riservate anche ai più giovani Under 12, Carla Ponti per il contemporaneo, Daniel Agesilas per il classico, Tony B per il tip tap, Giovanni Gava per il breaking. L’appuntamento più atteso è stata la lezione di video-dance sulle musiche tratte dalla nota situation comedy “Alex & Co.”, tenuta dalla 16 enne Eleonora Gaggero – autrice del libro “Se è con te, sempre”, nonché attrice della fiction “Scomparsa” nel ruolo della ribelle Camilla – insieme al suo maestro Matteo Addino. All’uscita della lezione, tante le ragazzine letteralmente in visibilio.
«La Gaggerò è stata la mia insegnante preferita – dice Siria Sega, 10 anni, di Trento -. Mi è piaciuto molto il suo modo di spiegare e anche di danzare. Incontrarla è stato come realizzare un piccolo sogno!». «Da grande vorrei fare la ballerina e diventare come Eleonora – aggiunge Arianna Zannon, 10 anni, di Verona -. Studio danza da quando avevo quattro anni e la passione è cresciuta negli anni. Mi piace molto lo stile modern e contemporaneo. A Expression, mi sono divertita molto anche a seguire Carla Ponti che mi ha dato tanti utili consigli». «Il bello di questo stage – sottolinea Nicole Giuliani, 10 anni di Trento – è l’opportunità di confrontarsi in pochi giorni con tanti stili e maestri diversi. Studio da quando avevo sette anni e ho una predilezione per il moderno, anche se mi sto appassionando anche al contemporaneo».
Pelagatti e Gaggero sono state protagoniste del momento ‘Meet & Greet’ al termine delle lezioni oggi, durante il quale hanno incontrato i loro fan e si sono prestate a scattare selfie e a firmare autografi.
Due i focus rivolti agli insegnanti e non solo: “Adolescenti dietro le quinte: metamorfosi dei corpi danzanti” di Rita Valbonesi e Roberta Broglia e “Strumenti di coreografia: tecniche di composizione coreografica attraverso l’utilizzo di oggetti di scena con giovani danzatori” di Matteo Addino e Roberta Broglia.
© Expression Dance Magazine - Dicembre 2017
Un caloroso ringraziamento a tutti i partecipanti! Non perdete il prossimo appuntamento formativo con Kledi, Roberta Fontana, Matteo Addino e tanti altri a Campus Summer School 2018
Un'incrollabile passione per la danza che l'ha portato dalle violenze del padre, le bombe della guerra e le minacce di morte alla sua seconda vita, in Olanda, a soli 27 anni, debutterà al fianco di Roberto Bolle
In molti lo hanno definito il ‘Billy Elliot siriano’ perché la vita del giovane ballerino Ahmad Joudeh non è stata finora per niente facile. Classe 1990, è nato e cresciuto nel campo profughi di Yarmouk, vicino a Damasco, in una famiglia di origine palestinese. Suo padre e suo fratello suonano da sempre e lui, a otto anni durante un loro concerto, si innamora invece della danza vedendo un gruppo di ragazzine ballare. La notizia non viene presa bene dai familiari, al punto che il padre lo bastona ripetutamente. Ma lui continua, imperterrito, a studiare danza di nascosto sui tetti di casa. E sempre di nascosto, poco più che adolescente, Ahmad si diploma all’Higher Institute for Dramatic Arts a Damasco, per poi unirsi alla compagnia dell’Enana Dance Theater con cui gira in tournée dal Libano fino agli Emirati Arabi. Arriva anche in semifinale nella versione araba del talent show “So You Think You Can Dance”.
Purtroppo, però, gli imprevisti sono dietro l’angolo. Mentre la sua carriera è ormai in salita, la Siria viene inghiottita dalla guerra nel 2011. Prima le bombe del regime di Assad distruggono la sua casa, dove fra l’altro muoiono cinque membri della sua famiglia, poi i jihadisti prendono il controllo proprio del campo di Yarmouk dove trova rifugio. E come se non bastasse, nel 2014 l’Isis inizia a minacciarlo di morte via Facebook perché non solo danzava, ma insegnava ai bambini a farlo. Come reazione si disegna un tatuaggio sul collo con la scritta ‘Dance or Die’, dietro la nuca dove i boia islamici infilano la lama del coltello per tagliare la testa, così – se mai ce ne fosse stato bisogno – lo avrebbero saputo anche loro. Per Ahmad non ci sono altre strade, se non la danza. E insegnarla ai bambini orfani che hanno perso i genitori in guerra è un modo per salvarli. Per questo ha anche voluto danzare nel teatro di Palmyra dove l’Isis ha ammazzato centinaia di persone. È in quell’occasione che il giornalista olandese Roozbeh Kaboly conosce la sua storia e ne ricava un documentario che diventa un simbolo concreto della guerra contro l’Isis. Il film va in onda nella tv olandese e varca i confini del Medio Oriente. Ahmad porta in scena una sua coreografia sul palco dell’antico teatro romano di Palmira, lo stesso dove l’Isis ha costretto 25 ragazzini a uccidere altrettanti prigionieri.
Da quel momento, inizia la sua rinascita. Il Dutch National Ballet lo invita ad Amsterdam. Appena in tempo, perché l’esercito siriano lo richiama. Quando arriva in Olanda è sotto choc perché non è abituato a tanta libertà e ad esprimere se stesso. Il direttore, Ted Brandsen , apre anche una campagna di raccolta fondi “Dance for Peace” (www.danceforpeace.nl), che finanzia il suo soggiorno e il mantenimento agli studi. E poi, è arrivata la realizzazione del suo più grande sogno: conoscere il suo idolo Roberto Bolle, colui che ha ispirato tutto quello ha fatto. I due sono diventati amici e Bolle gli ha chiesto di ballare insieme. L’1 gennaio 2018, Ahmad si esibirà sul palco di “Roberto Bolle – Danza con me” in onda in prima serata su Rai Uno.
Danzatore, coreografo, ideatore di eventi, ricercatore, creativo. Sono alcune delle definizione che ben calzano a Marco Bebbu, nato a Omegna nel 1977 in Piemonte, grintoso e determinato nel raggiungere i suoi obiettivi sin da giovanissimo nel variegato mondo dello spettacolo. Inizia presto a danzare nell’ambito di tournée teatrali, pubblicità, concerti musicali, compagnie di danza e di physical theatre in Italia e all’estero. Grazie al continuo contatto e confronto con registi e coreografi di fama internazionale, sviluppa un suo linguaggio di movimento molto personale, e si afferma come coreografo eclettico e innovativo. Inizia così un percorso creativo nell'ideazione e realizzazione di grandi eventi, flash mob, musical, spettacoli teatrali, videoclip, lip dub, sfilate di moda, programmi tv, locali notturni, coreografie aeree e performance interattive in cui l'elemento umano si fonde all'elemento virtuale
Marco Bebbu, partiamo dal presente. ‘Flashdance – Il Musical’, la nuova produzione firmata Stage Entertainment e Full House Entertainment, di cui curi le coreografie e con adattamenti di Chiara Noschese, sta ottenendo un grande successo di pubblico in teatro. Te lo aspettavi?
«Ne sono molto felice, soprattutto considerando che dal 2011 avevo deciso di smettere per un po’ di fare musical per continuare a ricercare un mio linguaggio e completare quindi il mio percorso. Ma, quando nel 2016 ho ricevuto la chiamata dell’assistente della regista, non ho saputo resistere. D’altra parte avevo già avuto il piacere di lavorare con Chiara e ne era nato un colpo di fulmine. A unirci è infatti una reciproca stima professionale. Ora ci aspetta un futuro luminoso, visto che ogni sera portiamo a teatro anche mille persone e che sono venuti persino dall’Inghilterra a vedere il nostro spettacolo».
Com’è lavorare come coreografo in una produzione così importante e articolata?
«Ci si sente anzitutto pieni di responsabilità, ma ciò vale per tutti gli artisti coinvolti. Questo perché più il progetto è grande, e più è necessario ‘portare a casa’ dei risultati. Lo sforzo di tutti è stato quello di ‘allinearci’, di lavorare insieme in un’unica direzione, dalla musica ai costumi, dalla coreografia alla sceneggiatura, consapevoli di dare vita a qualcosa di completamente nuovo. Senza questo forte spirito di gruppo non si va da nessuna parte…».
I ballerini sono riusciti facilmente a entrare nel tuo mondo, con i tuoi tempi e passi?
«C’è stato da lavorare insieme, prova dopo prova, per dare il massimo in scena. In base alla mia lunga esperienza, non è così facile in Italia trovare danzatori molto bravi per i musical perché si tende sempre a prediligere le doti canore e recitative. Quindi un requisito fondamentale è quello di dimostrarsi eclettici. Se poi si possiede quel quid che pochi hanno, sarebbe perfetto. Quando ho iniziato io a 19 anni, lavorando al fianco di Massimo Romeo Piparo, mi è servito molto per esempio avere doti acrobatiche».
Come definiresti il tuo stile coreografico?
«Rispecchia il modern fusion, ossia è una fusione di più tecniche, con passaggi di acrobatica, new style, modern con ottime basi classiche e non solo. Mi piace la duttilità e una naturale apertura verso nuovi elementi».
Tutte caratteristiche utili per “Flashdance”…
«Esattamente, perché è un musical dalla trama articolata e difficile in cui la protagonista si trova a dover fare una scena di danza classica, una di street dance, un’altra ancora a base di contaminazioni varie. In definitiva, uno spettacolo molto diverso rispetto a un musical come “Chicago” dove c’è un linguaggio uniforme dall’inizio alla fine».
Come ti sei avvicinato alla danza?
«Sono sempre stato un iperattivo. Ho iniziato a nove anni con la ginnastica artistica, per studiare poi la breakdance e la danza classica verso i 12-13. Danzavo fino a quando non mi sentivo le ginocchia completamente distrutte. Appena potevo, scappavo per andare a studiare a Milano, rinunciando alle serate in discoteca. Dopo il liceo mi sono trasferito a Roma e lì è cominciata la mia carriera professionale».
Tra le curiosità… hai firmato una coreografia del gioco di danza più venduto al mondo, il “Just Dance” della Wii, appena uscito con la quarta serie di canzoni. Si tratta del balletto “Some catching up”. Che tipo di esperienza è stata?
«Molto divertente ma anche impegnativa. La Wii è il gioco interattivo più diffuso negli Stati Uniti. Ho creato la mia coreografia rapportandomi con una ragazza con sensori. Non bastava avere in testa la coreografia, ma era necessario fosse semplice. Per questo motivo, i passi venivano continuamente verificati. Ne conservo un bel ricordo: l’ho vissuta come un gioco!».
Qual è stato invece il lavoro che ricordi maggiormente come danzatore?
«Ho avuto la fortuna di fare un po’ tutti i più importanti musical: “Jesus Christ Superstar”, “Evita”, “La febbre del sabato sera”, “Sette spose per sette fratelli”, “Sweet Charity”, “Tre metri sopra il cielo”, “We Will Rock”, “Sola me ne vo per la città” con Mariangela Melato. Fra tutti, lo spettacolo che più mi ha permesso di crescere è stato quello al fianco di Jaime Rogers ne “La febbre del sabato sera”. Lui era completamente fuori di testa e, malgrado fosse estremamente difficile stargli dietro, ha cercato di trasmetterci il suo linguaggio. Rogers ci insegnava a essere assolutamente perfetti, a curare ogni dettaglio in modo quasi maniacale».
Come si potrebbe migliorare il mondo del musical e della danza in Italia?
«Abbiamo nel complesso una buona realtà, ma servirebbe osare di più, ossia essere un po’ più coraggiosi a livello progettuale, per far sì che anche i giovani coreografi – che non mancano – possano esprimersi. Per non fare sempre le stesse cose… il che corrisponde alla morte di un artista… Bisogna chiedersi di continuo ‘Perché esserci’ piuttosto che ‘Volerci sempre essere a ogni costo’!».
(Foto di Roberto Chierici)
© Expression Dance Magazine - Dicembre 2017
Nata per fare la ballerina, ha avuto una carriera ai massimi livelli. Nel suo coraggioso spettacolo La mia vita d’artista racconta delle sofferenze vissute per la sua dislessia
Quella di Sabrina Brazzo non è la ‘semplice’ storia di una bimba che comincia a studiare danza fino a realizzare, tra i soliti alti e bassi, il sogno di diventare prima ballerina. È la storia di una donna con una volontà di ferro, che a lungo si è sentita diversa dagli altri. La dislessia la faceva sentire un passo indietro rispetto ai suoi compagni di scuola, ma lei ha compreso che la danza poteva essere lo spazio dove esprimere il suo talento. Anche in sala da ballo le difficoltà non sono mancate, ma Sabrina ha superato con testardaggine tutti gli ostacoli. La danzatrice di Portogruaro si è diplomata alla Scala, dov’è diventata prima ballerina, per poi calcare i palcoscenici più famosi al mondo, dall’Opéra di Parigi al Covent Garden di Londra, dal Metropolitan di New York, al Marijnskj di San Pietroburgo, e ancora il Bolshoi di Mosca e il Theatro Municipal di Rio de Janeiro. Interprete dei ruoli principali dei titoli più celebri del repertorio classico e moderno, ha danzato anche per originali progetti a fianco di Giovanni Allevi (special guest nel videoclip “Go with the Flow”), Vasco Rossi (“Albachiara”, ma anche nel balletto alla Scala “L’altra metà del Cielo” con le coreografie e regia di Martha Clarke), Malika Ayane (nel videoclip “Ricomincio da qui”), Roberto Bolle nei vari “Bolle and Friends” a partire dal 2008 e per numerose iniziative legate all’alta moda. Un lungo cammino del quale non ha dimenticato le sofferenze iniziali, rivissute in uno spettacolo coraggioso, “La mia vita d’artista”, attraverso cui ha lanciato un messaggio importante: i bambini dislessici devono essere messi in grado di imparare, supportati nella diversità e unicità di ciascuno.
Com’è entrata la danza nella sua vita?
«Sono nata ballerina, ovvero con delle doti speciali. Non avrei potuto fare altro. Ballavo sempre, anche all’asilo. Mia mamma ha subito notato la mia predisposizione al movimento e mi ha portata in una scuola di danza a soli tre anni».
Chi ha inciso maggiormente nel suo percorso artistico?
«Ho avuto tanti bravi maestri, sono stata fortunata. A sei anni, in una scuola privata, incontrai Alfredo Rainò, primo ballerino dell’Opera di Roma. Accortosi del mio talento, chiamò i miei genitori per invitarli a farmi proseguire questo percorso. Quando ho studiato alla Scuola di Ballo del Teatro alla Scala, importante è stata la direttrice Anna Maria Prina, che ha sempre creduto in me. La sua severità è stata fondamentale per la mia formazione poiché avere delle belle doti non basta: per diventare ballerine bisogna avere carattere e volontà. Dopo il diploma, grazie a Rudolf Nureyev, che mi ha scelta per il suo “Lago dei Cigni”, sono entrata in compagnia. Essendo molto curiosa, sono andata in Francia, Germania, America per acquisire tecniche diverse. Devo molto, poi, a Elisabetta Terabust, che mi ha chiamata facendomi tornare in Italia, dove è iniziata la mia carriera. Ricordo con gratitudine anche Frédéric Olivieri, che mi ha fatto ballare tutto quello che potevo ballare. Ma l’incontro più bello è stato quello con mio marito, lui mi ha ispirato una seconda carriera».
Suo marito è il danzatore Andrea Volpintesta. Quali sono i pro e i contro di condividere il palcoscenico con il proprio compagno di vita?
«È una bella sfida. Si dice che la coppia che lavora insieme prima o poi si stufa, ma per noi non è così. Abbiamo lo stesso interesse, anche a casa parliamo del nostro lavoro. Questo perché la nostra, in realtà, non è solo una professione, è la nostra vita. Viviamo per il teatro. Amo poter condividere con mio marito oltre che la casa, la scena, le quinte, i camerini. Inoltre Andrea è un bravissimo maestro, mi segue nell’allenamento. E in scena, quando c’è lui, ballo con gli occhi chiusi perché so che mi fa volare».
Con suo marito ha fondato la compagnia Jas Art Ballet. Come e con quali obiettivi nasce questo progetto?
«L’idea è stata di Andrea. Uscita dalla Scala pensavo di smettere di ballare. Avevo già scelto di tornare a Venezia, la mia città. Mio marito scherzosamente mi disse: “Le gambe ti si alzano ancora, perché non continui ad alzarle?”. Proprio in quel periodo facemmo un viaggio a Lourdes, dove danzammo. La Madonna di Lourdes è famosa per dare delle risposte e io, in quell’occasione, le chiesi se fosse giusto smettere di ballare. Dopo pochi secondi dalla mia domanda arrivò un prete. Mi riconobbe e mi raccontò una parabola che parla di un artista che riceve un dono speciale dal Signore. Interpretai quell’incontro come un segno del destino, decidendo di non lasciare la danza. Ma dopo una meravigliosa carriera ho sentito il bisogno di mettere la mia esperienza a disposizione dei giovani, dando loro la possibilità di vivere il teatro. Ci si lamenta tanto che i teatri chiudono, che i corpi di ballo non ci sono. E allora io e Andrea abbiamo scelto di reagire, provare a fare qualcosa, cominciando in una piccola palestra. Alla prima audizione non c’era nessuno, solo tre ragazzi che avevamo precedentemente conosciuto. All’ultima audizione, invece, c’era il mondo. Mi sono commossa pensando alla strada percorsa. Inoltre, lavorare con i giovani per me è bellissimo perché c’è uno scambio costante e reciproco, la mia curiosità continua a essere stimolata».
Nello spettacolo “La mia vita d’artista. Storie di ordinaria e straordinaria dislessia” si è raccontata in danza. La dislessia, quanto ha influito nell’affrontare il suo percorso quotidiano di danzatrice?
«È stato lo spettacolo più forte che abbia mai fatto. Mi ha messa a nudo. Mi è stato proposto da Salvo Manganaro del Teatro Carcano, al quale all’inizio dissi di no perché i miei genitori ancora si vergognano. E infatti non sono venuti ad applaudirmi in teatro. Ma ho voluto portare la mia testimonianza. La mia è stata un’infanzia bruttissima perché non si sapeva cosa fosse la dislessia e i ragazzini che avevano più difficoltà a scuola erano considerati asini. Anche studiando danza ho affrontato non pochi ostacoli nell’imparare i nomi dei passi, le coreografie, nel distinguere la destra e la sinistra. Fino a prima dello spettacolo non mi ero mai veramente soffermata a riflettere sulla fatica fatta, la dislessia era un tabù. Sono contenta di essere stata anche un esempio: un ragazzo della compagnia mi ha scritto una lettera subito dopo lo spettacolo, ringraziandomi per avergli fatto capire il suo problema».
Quali sono stati i momenti più emozionanti della sua carriera?
«Quando ho portato a teatro il mio bambino per la prima volta. Ricordo che era un batuffolino che mi guardava mentre mettevo le punte. Ho vissuto un’emozione incredibile quando sono diventata prima ballerina con Sylvie Guillem, che tra tante candidate mi scelse per la sua “Giselle”. E poi un’altra emozione forte è quella che ho provato quando mi strappai il polpaccio. In ospedale mi dissero che probabilmente non avrei più ballato. L’unica cosa che so fare è ballare e mi ritrovai a chiedermi: “E adesso cosa faccio?”. Ma poi arrivò la telefonata di Roberto Bolle che mi diceva di mettermi in sesto perché aveva bisogno di me per Bolle and Friends. Nel giro di un mese e mezzo ero già in prova e ho ballato per 5-6 anni con lui in giro per il mondo».
Qual è il suo consiglio ai giovani che sognano una carriera da danzatori?
«Di andare in teatro a vedere spettacoli di danza. Hanno l’obbligo di frequentare il teatro e di entrare in sala con la voglia di vivere il momento, non di sopportare la lezione, ma di viverla perché è con l’anima che si diventa ballerini, oltre che con la tecnica».
Cosa le piacerebbe che ci fosse nel suo futuro?
«Andrea e io ci stiamo dedicando alla Jas Art Junior, una compagnia giovane. Un progetto che è già partito e sta dando buoni frutti. Abbiamo formato un gruppo eccezionale, composto dai migliori giovani danzatori d’Italia. Frequentano regolarmente le loro accademie e scuole di danza e un weekend al mese vengono da noi per studiare diverse discipline, dalla danza classica fino alla storia del teatro. L’obiettivo è di preparali a spettacoli importanti, da portare in tour non solo in Italia. Stiamo lavorando per far capire che la danza è nei teatri e mi auguro un futuro con più compagnie di danza e meno calcio, con una politica che promuova quest’arte, come accade in Germania, dove ogni paesino ha il suo corpo di ballo e la sua stagione teatrale».
Da anni “Expression” dedica spazio ai migliori giovani ballerini dei principali corpi di ballo in Italia – che malgrado le grandi difficoltà economiche riescono a rimanere a un livello di grande prestigio – riuscendo in molti casi a portar loro fortuna. A distanza di tempo, è molto bello infatti vedere quanto quel loro talento li abbia poi portati a spiccare il volo definitivamente.
In questa intervista doppia a raccontarsi sono le due nuove stelle del Teatro Alla Scala di Milano: Martina Arduino, torinese classe 1996, e Nicola Del Freo, nato a Massa nel 1991. Mentre la prima ha una formazione interamente scaligera, il secondo ha studiato alla Hamburg Ballett Schule John Neumeier muovendo anche i primi passi nell’omonimo corpo di ballo. Ma sono accomunati dall’energia, dall’eleganza e dalla determinazione che dimostrano in scena.
Come nasce la tua passione per la danza ?
Martina «Per caso, a tre anni, quando accompagnai mia sorella alla scuola di ballo per una lezione di prova. Non so dire che cosa mi affascinò di più di quel luogo, ma ricordo che lei scappò e io rimasi dentro».
Nicola «Mia madre mi portò a vedere il Balletto di Toscana quando avevo 13 anni. Rimasi profondamente colpito da quello che i ballerini esprimevano con il corpo e chiesi di poter prendere lezioni».
Il momento in cui hai capito che con la danza potevi fare sul ‘serio’, ossia avere un futuro professionale?
Martina «Credo che, inconsciamente, capii subito che la danza era la cosa che volevo. Ma la vera consapevolezza l'ho avuta crescendo e maturando all'interno dell'Accademia del Teatro alla Scala dove sono entrata all'età di 11 anni».
Nicola «Quando ero studente della scuola di ballo ad Amburgo e ho dovuto sostituire un ballerino che si era fatto male durante una prova aperta del balletto “Nijinsky”. Ricordo ancora la fortissima emozione al momento degli applausi finali, volevo che non smettessero mai… Lì mi sono reso conto che avrei potuto intraprendere questa professione».
Il maestro che non puoi dimenticare...
Martina «Vera Karpenko e Tatiana Nikonova che sono state fondamentali per la crescita e la formazione. Ricordo ancora correzioni e consigli che cerco di mettere in pratica anche adesso. Da quando ho iniziato il mio percorso da professionista, ho avuto l'onore e la fortuna di avere come maestro, Massimo Murru, che non potrò mai dimenticare. Quando ho debuttato in grandi ruoli come Odette/Odile e Giulietta, è stato lui a prepararmi e a incoraggiarmi, trasmettendomi la sua esperienza e insegnandomi come si entra in un personaggio. Spero che mi accompagni ancora per gli anni a venire.
Nicola «Sicuramente John Neumeier. La sua passione per il teatro mi ha sempre ispirato. Negli anni in cui sono stato sotto la sua direzione, ho potuto apprezzare appieno le sue opere. È quasi scontato aggiungere però che ci sono stati molti altri maestri per i quali nutro una stima davvero profonda».
La danza per te è...
Martina «Ciò che mi fa star bene, è la mia vita».
Nicola «La manifestazione attraverso il corpo delle mie emozioni».
Il ruolo che più ti ha emozionato danzare e il ruolo che invece vorresti danzare un giorno?
Martina «Interpretare Odette/Odile è stato indimenticabile, a maggior ragione se si considera che è stato il primo grande ruolo che ho danzato al Teatro alla Scala. Ricordo ogni attimo di quel giorno. Guardando al futuro, vorrei ballare qualsiasi ruolo anche se il più grande desiderio rimane quello di danzare Giselle».
Nicola «Ho adorato Mia Siegfried nel “Lago dei Cigni”. Mentre quello che a cui aspiro da sempre è Onegin, nell'omonimo balletto di Cranko».
Qual è il tuo stile? Come pensi di riuscire a catturare il pubblico?
Martina «Molti mi ritengono una ballerina romantica, ma non credo di non avere uno stile in particolare. Anzi, mi piace lavorare sullo stile specifico di ogni balletto andando sempre alla ricerca della bellezza. Credo che una delle cose più belle del mio lavoro sia poter coinvolgere e rendere partecipe il pubblico nella storia che sto raccontando ed esprimere le emozioni che sto provando in quel momento. Anche quando un balletto è privo di trama, cerco di far arrivare fino all'ultima fila del loggione la passione e la gioia che provo mentre danzo».
Nicola «Penso che il modo attraverso il quale cerco di catturare il pubblico sia la semplicità. Cerco di mostrarmi per quello che sono».
Manie e o piccole fissazioni prima di entrare in scena?
Martina «Niente di particolare, solo tanta concentrazione».
Nicola «Penso semplicemente alle persone che mi vogliono bene e mi faccio il segno della croce. Poi controllo più volte che le scarpette siano allacciate bene».
Cosa ti ha dato la danza? Cosa invece ti ha tolto?
Martina «La danza mi ha regalato quella che oggi sono. Mi ha dato il rigore, la disciplina e il rispetto per il mio lavoro e quello degli altri. Giorno dopo giorno la danza ha contribuito a smussare il lato introverso del mio carattere, facendomi aprire anche verso gli altri. Credo non mi abbia tolto nulla perché, pur non avendo vissuto alcuni momenti ed esperienze tipici dell’età adolescenziale, non li considero rinunce ma scelte».
Nicola «Mi ha dato la possibilità di fare della mia passione un lavoro. Di viaggiare e anche di rapportarmi con persone provenienti da tutto il mondo. Il rovescio della medaglia è che, purtroppo, mi ha portato ad allontanarmi molto giovane dalla famiglia».
Se guardi avanti, ai prossimi cinque anni, ti immagini...
Martina «Non riesco a vedermi fra cinque anni perché il futuro è talmente imprevedibile che preferisco godermi ogni attimo del mio presente».
Nicola «Spero che il mio futuro sia qui, al Teatro alla Scala».
Il ballerino/a che apprezzi di più? Quello con cui vorresti un giorno danzare in coppia?
Martina «Fra le donne, ho un’adorazione per Mariangela Nunez. Avendo avuto l'occasione di conoscerla da vicino in sala prove, posso dire che lei per me incarni la dedizione al lavoro, l’umiltà e anche la simpatia. Tra gli uomini, il grande Roberto Bolle con cui vorrei far sempre coppia».
Nicola «Fin da piccolo mi ha sempre affascinato Mikhail Baryshnikov. Nel lavoro quotidiano ho seguito l'esempio di Roberto Bolle. Ho sempre sognato di ballare con Polina Semionova avendola potuta ammirare nella mia esperienza berlinese».
Tre doti fondamentali per i giovani che aspirano al professionismo nella danza?
Martina «Serietà, onestà e grande dedizione. Ed è molto importante affidarsi alla scuola giusta!».
Nicola «Passione, costanza, determinazione».
Come si svolge la tua giornata tipo?
Martina «Mi alzo alle sette e mezza di mattina perché dedico molto tempo alla prima colazione, fondamentale per iniziare e affrontare i miei allenamenti. Alle 8.45 esco di casa per raggiungere il teatro, dove mi preparo e riscaldo per la lezione che inizia alle 10. A seguire le prove fino alle 17.30 con una pausa di 40 minuti per mangiare qualcosa. In genere, poco prima dell’inizio degli spettacoli mi trattengo anche fino alle 18.30 per lavorare, fare stretching e almeno una volta alla settimana un massaggio. Quando le giornate sono meno impegnative mi dedico a cene fra amici. Infine un buon riposo per recuperare per il giorno successivo».
Nicola «La mia giornata è assorbita dalla danza, con le lezioni dalle 10 del mattino e le prove nel pomeriggio fino alle 17.30. Quando abbiamo gli spettacoli, invece, le prove si svolgono di mattina e finiscono alle 13.40, mentre dalle 18.45 si riprende con il riscaldamento che precede l’entrata in scena».
Cosa c'è oltre alla danza, nella tua vita?
Martina «La mia famiglia».
Nicola «La lettura, il cinema e lo sport, durante la stagione estiva quando trascorro una vita piuttosto ritirata. La mia famiglia e i viaggi durante i periodi di ferie».
Meglio la danza in Italia o in altri Paesi?
Martina «La danza in Italia sta affrontando dei problemi con la conseguente chiusura di corpi di ballo. Quindi sicuramente all’estero c’è più possibilità di lavoro. Ciò non significa, però, che la danza sia migliore negli altri Paesi. Spero che le cose cambino, infatti ho voluto e voglio credere nel mio paese».
Nicola «Purtroppo la considerazione che si ha della danza in Italia è piuttosto bassa. Anche se considero il Teatro alla Scala uno dei migliori».
Il tuo sogno nel cassetto?
Martina «Come tutti i desideri, se si rivelano, non si avverano! Lo tengo nascosto nel mio cassetto...».
Nicola «Avere la possibilità di esibirmi sul palcoscenico del Covent Garden a Londra».
Cosa ne pensate l’uno dell’altro?
Martina «Nicola è stato il mio primo partner. Con lui ho affrontato il mio primo ruolo principale e spesso veniamo scelti per danzare insieme. Sicuramente è un grande lavoratore, oltre che un ballerino molto talentuoso al quale auguro una splendida carriera!».
Nicola «Martina, oltre che nel “Lago dei cigni” è stata la mia partner già nel “Giardino degli amanti”. È una ballerina che stimo moltissimo e con la quale è veramente un piacere ballare».
© Expression Dance Magazine - Dicembre 2017
In maniera eloquente, il suo storico maestro Zarko Prebil, l’ha definita: “La Anna Magnani della danza”. Petra Conti sembra infatti parlare con il corpo, e non solo. Perché anche il suo viso, neanche fosse la più consumata attrice, sa essere di un’espressività commovente. E anche a sentirla parlare, la sua voce carezzevole lascia intuire una grande tempra, oltre che una profondità sorprendente per la sua giovane età.
Petra, com’è nata la tua passione per la danza? Che influenza ha avuto la tua famiglia?
«In casa si è sempre respirata aria di arte, danza e musica classica… mia mamma e mia sorella sono state ballerine. La passione è cresciuta insieme a me. Mi piace pensare che la danza sia stata una vocazione».
Come pensavi alla danza quando eri bambina?
«Alle elementari, per tutti, ero già una piccola ballerina: non solo per il fisico, ma soprattutto per il modo in cui mi muovevo, per la voglia di ballare che avevo dentro. Anche il mio maestro di tennis diceva che correvo per il campo con la racchetta da tennis ma con la grazia di una ballerina. Eppure non sapevo molto del mondo della danza… non sapevo neanche cosa fosse il collo del piede finché non ho iniziato l’Accademia! Sapevo però cosa fosse la spaccata, perché ogni tanto mamma si metteva a farla… Sono cresciuta pensando che la danza fosse qualcosa di naturale e spontaneo, e che in ogni famiglia fosse così».
Come sei arrivata all’Accademia Nazionale di Danza di Roma? Cosa ricordi di quel periodo?
«In quinta elementare, sono stata io a chiedere ai miei genitori di mandarmi in un’accademia professionale, come quella che avevano frequentato mia madre e mia sorella in Polonia. Abitavamo a un’ora da Roma e l’Accademia Nazionale di Danza mi sembrava facesse al caso mio. Per i miei genitori non è stato facile vedermi maturare cosi in fretta: a 11 anni mi sono trasferita in un collegio di suore nella capitale e così è iniziata la mia avventura. I primi anni in Accademia sono stati i più emozionanti: tutto mi sembrava più un bel gioco che un lavoro impegnativo. Non vedevo l’ora che arrivasse il momento di mettere le punte! E il primo saggio di fine anno è ancora un ricordo vivido e felice».
Quando hai preso coscienza del tuo talento?
«Non c’è stato un momento in particolare ma, con il passare degli anni, le piccole e grandi soddisfazioni mi hanno reso cosciente del fatto che stavo lavorando per il mio futuro, che diventare una ballerina era il mio destino, che la mia vita sarebbe per sempre stata legata alla danza…».
Quali sono stati gli incontri più significativi o le esperienze che più hanno contribuito a far crescere il tuo talento?
«L’allora direttore dell’Accademia, Margherita Parrilla, è stata la prima a vedere potenzialità in me: grazie a lei ho iniziato molto presto a fare le prime importanti esperienze in scena, a viaggiare all’estero per confrontarmi con ballerini di tutto il mondo, assaporando quindi la vera vita di una ballerina. Proprio lei, negli ultimi anni di Accademia, mi ha assegnato al maestro Zarko Prebil con cui si è sviluppata una relazione che è andata al di là del rapporto insegnante-allievo. Mi ha trasmesso il valore e l’arte della danza, mi ha insegnato il rispetto e la dedizione per il nostro lavoro, mi ha fatto capire cosa vuol dire qualità, disciplina, e duro lavoro. Un maestro dolce e severo allo stesso tempo, Prebil ha creduto in me prima e più di tutti. Era il mio mentore, il mio fan più grande e il critico più severo. Se sono diventata la ballerina che sono, lo devo anche a lui… Con la sua recente scomparsa si è spento un pezzo di storia della danza. A me è venuta a mancare la persona che meglio conosceva le mie debolezze e i miei talenti, ma anche la mia ancora di riferimento, il nonno che non ho mai conosciuto».
Cosa rappresenta la danza per te?
«È il mio modo preferito di comunicare! La danza credo sia davvero un linguaggio universale, con il quale io riesco a esprimere emozioni e stati d’animo che perdono di valore e intensità se raccontati a parole. Il fatto di essere emotiva mi aiuta a immedesimarmi nel mio personaggio in scena. Dietro a ogni passo o gesto c’è un perché: la danza è un linguaggio puro, che continua a evolversi di generazione in generazione».
Quali sono stati i momenti di maggiore difficoltà?
«Ogni mio infortunio è sempre stato un momento difficile: il fatto di dovermi fermare, per poi affrontare la grande fatica di ritornare in forma. Ovviamente non posso dimenticare la terribile scoperta del cancro al rene. La settimana prima di essere operata, ho ballato il “Lago dei Cigni”, provando un’emozione indescrivibile perché pensavo che forse sarebbe stato l’ultimo per me… Ora a più di un anno di distanza, senza più tumore, mi sento davvero fortunata. Quest’esperienza mi ha cambiato molto, pure nel modo di danzare. Anche le vocazioni vengono messe a dura prova…».
Dopo il diploma e dopo un anno a San Pietroburgo e uno a Monaco di Baviera, a 21 anni, sei entrata nel corpo di ballo del Teatro alla Scala di Milano dove sei diventata presto prima ballerina…
«Sì. Ho danzato “Giselle” dopo appena tre mesi dal mio arrivo in compagnia e questo ha segnato il vero inizio della mia carriera. Grazie all’allora direttore artistico Mahar Vaziev, ho potuto crescere e ballare tanto in scena. Sono state tante le ore di lavoro, ma anche tante le soddisfazioni, e diventare prima ballerina alla Scala di Milano è stato un traguardo che sognavo e al quale puntavo, ma che, una volta superato, mi ha fatto capire che questo era solo l’inizio, non un punto d’arrivo».
Come nasce la decisione di accettare di trasferirti negli Usa, dove lavori come free-lance e principal ospite per diverse compagnie quali il Boston Ballet e il Los Angeles Ballet?
«Dal desiderio di continuare a perfezionarmi, di mettermi di nuovo in gioco, di superare nuove sfide e di crescere come artista, e come persona. Proprio per questo, ora voglio sentirmi libera di fare le mie scelte e prendere le strade che credo mi faranno crescere ulteriormente. Sono entusiasta di viaggiare e lavorare nei teatri di tutto il mondo, perché mi piace cambiare, apprezzare culture diverse e imparare da ognuna qualcosa di nuovo. Casa per me ha un valore affettivo e simbolico, non è un luogo ben preciso. La famiglia è lontana fisicamente, ma la sento molto vicina a me. La lontananza e la malinconia ho imparato a domarle da bambina».
Quanto è stato importante condividere questa esperienza con tuo marito Eris Nezha?
«Il fatto di esserci trasferiti in America e di essere lontani da tutti, ci ha unito ancora di più come coppia. Abbiamo preso insieme la decisione, coscienti di quello che avremmo perso, e vagamente a conoscenza di quello che ci aspettava oltreoceano. Siamo entrambi avventurieri e adoriamo le sfide, perché pensiamo che ogni sfida ci faccia crescere come artisti e come persone».
Come vi siete conosciuti e com’è condividere tutto: lavoro e vita privata?
«Avevo solo 17 anni quando, entrambi ospiti dell’Arena di Verona, ci siamo trovati a danzare in “Cenerentola”, il mio primo balletto intero. Lui era alla mia prima “Giselle” alla Scala. Poi abbiamo fatto tutto insieme dalla nomina a primi ballerini sul palco del Bolshoi alla decisione di trasferirci in America, dalle piccole e grandi soddisfazioni, alla notizia di avere un cancro, al fatto di averlo superato e di continuare la nostra vita in modo normale… Senza Eris al mio fianco non ce l’avrei fatta a fare tutto questo, e a superare con tanta forza i momenti difficili… Condividere lo stesso lavoro è unico per noi: non si tratta solo di affiatamento artistico in scena, ma del lavoro di tutti i giorni, insieme dalla sbarra, fino alle prove fuori orario la sera, fino a rimuginare sul ruolo o farci le correzioni durante la cena. Ci sosteniamo ed aiutiamo a vicenda, e impariamo continuamente l’una dall’altro. Non ha prezzo soprattutto il fatto che Eris mi faccia da personal coach! Questa generosità infinta è forse la qualità più grande di mio marito. Stare in sala a lavorare da soli è ciò che ci ha uniti sin dall’inizio. Questa nostra intesa, cura del dettaglio e ricerca della qualità è ciò che il pubblico apprezza quando balliamo insieme, ciò che ci rende speciali come coppia».
Come valuti la situazione della danza in Italia rispetto a quella negli Stati Uniti?
«Nel nostro Paese manca il necessario supporto… Ma nonostante questo momento di crisi, tanti talenti continuano a emergere. Questo ci dovrebbe far riflettere sull’attenzione e sulle condizioni che l’Italia dovrebbe offrire, affinché questi talenti non scappino all’estero alla prima occasione! A maggior ragione se si considera che l’Italia ha una storia che la maggior parte del mondo sognerebbe di avere, ma che se avesse, custodirebbe con grande cura. I teatri e le compagnie di danza sono patrimoni culturali dei quali l’Italia dovrebbe essere orgogliosa come lo è del David di Michelangelo, o del Colosseo».
Qual è il ruolo che hai interpretato, che più ti ha emozionata?
«Personalmente adoro i ruoli drammatici, quelli con una storia profonda e dove il mio personaggio si evolve. La cosa che più mi piace della danza è diventare il mio personaggio, studiare ogni suo pensiero, azione, movimento. La recitazione e la ricerca artistica sono le cose su cui mi concentro di più, ed è per questo che amo in particolare i balletti con più atti, dove devo interpretare scene d’amore, di pazzia, di passione, di disperazione... Ho un debole per i ruoli dove devo piangere o morire in scena».
Che consigli daresti ai giovani di oggi che sognano un futuro da ballerino? Quali caratteristiche sono necessarie e quali gli ostacoli da affrontare?
«Un ballerino, come ripeto spesso, deve avere il “cuore”: le emozioni vengono trasmesse al pubblico solo se sono genuine. Sul palco esce il nostro io più nascosto; la tecnica è al servizio dell’artisticità e delle emozioni che abbiamo dentro. La propria personalità non va soffocata, ma coltivata con cura, perché più si è veri con se stessi più il ballerino è in grado di calarsi completamente nel personaggio e farlo suo. Non imitate gli altri, ma imparate dagli altri. E poi, ai giovani ripeto quello che mi ripeteva sempre il mio amato maestro Prebil: “Lavoro, lavoro, lavoro!”. La perfezione non esiste, esiste solo la voglia di raggiungere l’eccellenza personale in ogni passo o gesto».
Com’è la tua giornata tipo? Cosa ti piace fare al di fuori della danza?
«La mia giornata tipo si svolge in sala da ballo, o in teatro durante gli spettacoli. Dopo un’ora e mezza di lezione quotidiana, inizio le prove per i prossimi spettacoli, che continuano anche dopo la pausa pranzo. Le prove sul palco si fanno solo prima di andare in scena e in quei giorni, quando la tensione si fa più grande, non ho né la testa né il tempo per pensare o fare altro che non sia lavorare sul balletto o cucirmi-prepararmi le tante paia di punte che userò in scena. Prima dello spettacolo mi piace il momento del trucco e parrucco, perché è li che già entro nel mio personaggio. Ceno dopo lo spettacolo e spesso capita che io non riesca ad addormentarmi per via dell’adrenalina o delle emozioni forti che ho provato in scena. Nel tempo libero invece mi piace riposare, dormire tanto, e stare a casa con mio marito e guardare un film, o ancora meglio una bella serie tv americana…».
Ti piacerebbe ritornare in Italia?
«L’Italia è la mia patria, e spero di tornare a ballare spesso nei teatri italiani».
Progetti a cui ti stai dedicando, oltre la danza?
«Sto studiando per ottenere una laurea in Scienze di Leadership alla Northeastern University. Vorrei diventare una leader che stimola la comunicazione, che ascolta e supporta, che non ha paura di sfide e cambiamenti per il meglio, e il cui principale obbligo è prendersi cura del proprio team e far sì che le persone siano contente di venire a lavorare. Ho imparato che si ottiene il triplo se ci sono le condizioni necessarie e l’atmosfera giusta per svolgere il proprio lavoro. Spero un giorno di applicare la mia conoscenza e la mia esperienza a capo di una importante organizzazione, artistica o non».
Un sogno nel cassetto?
«Aiutare gli altri a superare i momenti difficili. Da quando ho comunicato la mia storia personale del cancro sul mio account Instagram, tantissime persone mi hanno scritto dicendomi che per loro sono un esempio di forza, di coraggio e di voglia di andare avanti. In tanti vorrebbero che io scrivessi un libro, in modo da condividere la mia esperienza di artista ma soprattutto di persona, che ha superato a 28 anni lo sconforto di dover mettere in pausa la propria carriera, e concentrarsi sulla propria vita. Purtroppo gli artisti, e noi danzatori in particolare, soffriamo doppiamente perché la nostra carriera è molto breve e lo stigma della malattia rimane, nonostante si riesca a tornare in forma e anche migliori di prima. Ora che è tutto passato e che sono più forte di prima, mi sento in obbligo di aiutare tante altre persone che hanno sofferto e soffrono, o che non riescono a farsi forza a causa di una malattia o di un grande dolore… Uno dei progetti molto prossimi è di collaborare con l’American Cancer Society, per aiutare i milioni di malati di cancro e sensibilizzare la gente su questo doloroso argomento. Ma questo è solo l’inizio di una missione personale…».
© Expression Dance Magazine - Dicembre 2017
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