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Lo stile unico di Giovanni Gava

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Quando si fa il nome di Giovanni Gava, chi ha avuto la possibilità di vederlo in azione almeno una volta dal vivo o su YouTube, non può che pensare subito alla sua tecnica incredibile che è seconda solo al suo stile molto personale, in grado di contraddistinguerlo e renderlo unico nel suo genere. Oltre alla break-dance, disciplina di cui è un brillante interprete, è anche un ottimo ballerino di danza contemporanea. Come danzatore di break-dance, ha iniziato la sua carriera nel 1997 come membro del Crew Floor Deep di Treviso, per passare poi ai Good Fellas di Firenze  e alla Hip Hop Connection Kings, una delle squadre più innovative e originali della scena hip hop contemporanea, di cui è diventato coreografo e con cui ha ottenuto numerose vittorie alle competizioni di breaking a livello nazionale e internazionale. Nel 2012, sperimentando nuovi modi di comunicare attraverso la danza, ha fondato il gruppo Bellanda. Da segnalare che senza aver mai coreografato, è stato finalista al Premio Equilibrio Roma 2013 con la sua prima creazione autonoma sul contemporaneo.

Giovanni Gava, com’è stato il tuo primo “incontro” con la break-dance?

«Del tutto casuale. Avevo 18 anni e sono rimasto affascinato dalle evoluzioni di certi ragazzi che ho potuto ammirare nelle strade del centro di Udine e Trieste. Per me che venivo da un piccolo paesino di quattro anime, era qualcosa di completamente nuovo. Prima di allora, ero sempre stato attirato dalla musica rap che ascoltavo con regolarità e mi divertivo a girare con lo skateboard».

Si può dire dunque che inizialmente ti sei formato da autodidatta?

«Sì. In fondo, il bello della break-dance è che consente a chiunque di avvicinarsi a qualsiasi età. Il passo successivo è stato quello di guardare quanti più video musicali possibili su Mtv, cercando poi di copiare i movimenti. Poi però, spinto dalla voglia di riscatto e dal desiderio di non perdere tempo prezioso, ho pensato di avvicinarmi ai migliori del settore per imparare il più possibile. Così, ho viaggiato molto tra Germania e Svizzera con altri ragazzi per vedere come andavano fatte le cose. I ragazzi di oggi sono facilitati perché possono scaricarsi molti video e vedere praticamente di tutto senza neanche spostarsi. Il web è un grosso trampolino di lancio se ben utilizzato».

Cosa ti ha insegnato questa tua continua ricerca?

«Anzitutto che di imparare non si finisce mai e che non si è mai arrivati. Per cui il mio percorso è tuttora in divenire. La principale scoperta è stata una lettura diversa della break-dance, non solo come virtuosismo fine a se stesso, ma anche come lavoro che è possibile codificare. Per vent’anni, ho lavorato a terra facendo il cosiddetto footwork, che non è molto dissimile da quello che nel contemporaneo si definisce floorwork».

L’osservazione delle forti similitudini fra discipline, ti ha portato ad avvicinarti anche al contemporaneo?

«Sì. Un incontro che, in realtà, è stato inizialmente favorito dal desiderio di creare “ingressi corti” e alcuni gesti che avevo visto fare da coreografi che utilizzavano per i loro lavori ballerini di break-dance. Importante è stato anche l’incontro con Enzo Celli e con la sua compagnia Botega con cui ho esordito e collaborato, portando il mio linguaggio».

Come definiresti il tuo stile di danza?

«Non è mai facile descriversi… Ma, cerco sempre di trasmettere – con un passo o con una coreografia – non solo l’originalità del gesto fine a se stessa, ma anche un contenuto emotivo. Il virtuosismo tecnico, infatti, è qualcosa di freddo se non è accompagnato dall’espressività. Per questo, è così importante cercare passi diversi, ricercare di continuo, per riuscire in questa felice combinazione».

C’è stato il momento in cui hai capito che la danza poteva rappresentare il tuo futuro professionale?

«La danza è qualcosa che non si può scegliere, perché è un’arte… Non è solo una questione di essere bravi perché, dopo vent’anni di studio, un po’ tutti possono danzare bene con un minimo di predisposizione. Poi contano anche le circostanze, le opportunità che si incontrano lungo il proprio cammino. Per quanto mi riguarda, posso solo dire che ho 40 anni e che da quando ne avevo 20 ballo, probabilmente perché ho avuto la fortuna di incontrare coreografi meravigliosi a cui sono piaciuto. Non è qualcosa che dipende da me. A livello personale, posso solo cercare di mantenermi in forma e di allenarmi con costanza».

La danza è per sempre?

«No.  È l’unica arte che non può esserlo. Si può dipingere, fare musica, recitare per tutta la vita, sperando persino di migliorare nel tempo. Fare danza, no. Certo, si può ballare a 50 anni ed essere anche strepitosi da un punto di vista espressivo, ma il gesto atletico non è più lo stesso dei 30. Semplicemente, perché il corpo invecchia…».

Come ballerino, quali lavori hai più amato?

«Ogni esperienza è sempre qualcosa di prezioso, e spesso è la conseguenza di un’altra. Così come tante sono le emozioni fra cui è impossibile scegliere… Per lungo tempo, il mio essere danzatore si è espresso attraverso le gare di hip hop, in cui ci si mette a nudo dopo mesi di prove nella propria soffitta. Competere vuol dire portare il proprio essere in un contesto di improvvisazione in cui non si sa inizialmente chi saranno gli avversari, quali le musiche e via dicendo. Diverso è il lavoro del ballerino con un coreografo. Al riguardo, ho un ricordo speciale di Roberto Cocconi che mi ha fatto vedere come interpretavo ogni singolo dettaglio, per insegnarmi poi come essere sempre presente e vigile su ciò che mi ruota attorno in scena».

C’è poi il capitolo insegnamento…

«Sì, ed è un capitolo molto delicato soprattutto con i bambini, con cui non si può mentire. Per questo insegno solo break-dance, disciplina in cui mi sento più a mio agio. Non sempre è facile insegnare e non sempre se ne ricava soddisfazione. Se vedo che di fronte ho degli allievi che affrontano una lezione come fosse uno sport qualsiasi da provare, lo faccio subito notare. Per me la danza non è un “supermercato dello sport”, né tanto meno un divertimento. Per passare il tempo libero facendo un po’ di attività in allegria, c’è la parrocchia. Mi piace insegnare solo quando mi trovo a lavorare con giovani ballerini che hanno una reale passione e che vogliono studiare con me. Un vero insegnante non può avere mille allievi, ma al massimo uno, due o tre da portare avanti nel tempo, per crescere insieme. Nella consapevolezza che un giorno, quando si è dato tutto al proprio allievo, è giusto che lui prosegua per la sua strada…».

 

Si è formato da autodidatta e viaggiando, alla ricerca di maestri. Vent’anni d’esperienza come ballerino, oggi si dedica anche all’insegnamento. Le sue lezioni al  Campus 2017 sono state sorprendenti. 

Hai perso l'occasione? Non perdere la prossima: Giovanni terrà nuove lezioni allo stage Expressionche si svolgerà a Ravenna dall'8 al 10 dicembre 2017. 

 

 

© Expression Dance Magazine - Agosto 2017

 

 

Cellopointe, vedere la musica

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Non capita tutti i giorni di vedere uno spettacolo in grado di coniugare armoniosamente la musica da camera con la danza contemporanea, con l'intento di creare nuove opere o di rendere omaggio ai più apprezzati classici. A New York, sì. Perché è lì che è più facile poter ammirare i Cellopointe, una compagnia di danza e musica davvero speciale, fondata nel 2011, su iniziativa della famiglia Wiley: Peter, Marcia, David e Dona. I fratelli David (violoncellista) e Dona (ballerino) si esibiscono con il padre Peter (vincitore del Grammy-Award come violoncellista) mentre la madre Marcia, anche lei violoncellista, assume presto un ruolo di guida. Tutta la famiglia è praticamente cresciuta suonando il violoncello insieme in casa e durante le recite scolastiche. Finché a un certo punto Dona si è dedicata maggiormente alla danza… Le performance dei CelloPointe sono uniche in quanto i musicisti e i ballerini di esibiscono insieme sul palco, creando un'atmosfera intima e originale combinazione di tradizione e avanguardia. D'altra parte la musica da camera, da cui tutto è partito, è una forma di musica classica pensata per un piccolo gruppo di artisti. È uno stile musicale intimo che in molti amano descrivere come una conversazione fra amici, adatto a ben mescolare sul palcoscenico musicisti e danzatori. «Prima di tutto ci divertiamo - ama ripetere la ballerina Dona Wiley -. Ci godiamo ogni spettacolo e passiamo del buon tempo insieme. Lavorare con persone con cui c'è un legame così stretto è certamente un'esperienza diversa da qualsiasi altra che abbiamo avuto con altre compagnie. È sempre molto appagante sentire che i membri della compagnia si divertono realmente a lavorare insieme ed è ancora meglio quando si formano rapporti stretti». Come nasce questo riuscito progetto artistico? Inizialmente dalla semplice idea di un duetto tra un padre musicista e una figlia ballerina, Peter e Dona. Poi però la moglie madre Marcia ha intuito le potenzialità di un ensemble di danza e musica con base a Manhattan ma in grado di spostarsi in tour. Fondamentale nel creare il gruppo è stata poi la capacità di attirare attorno a sé giovani artisti di provenienza varia, dagli allievi e colleghi famosi di Peter che rendono omaggio alla musica da camera, ai ballerini freelance amici di Dona e fino ad alcuni tra i più innovativi coreografi di New York. In qualità di direttore esecutivo, Marcia Wiley è molto abile a colmare il 'divario' fra musicisti e ballerini, creando una programmazione molto attenta e accurata che mette in luce i virtuosismi di tutti. Il risultato finale è una stretta famiglia di artisti, che trae nutrimento proprio da questa forte collaborazione e che si impegna a portare il pubblico a una profonda esperienza dei CelloPonte. La compagnia invita a vedere la musica. Questa è la peculiarità dell'ensemble, la capacità di proporre qualcosa che nessuno finora aveva mai provato. Il risultato è una ricca esperienza per il pubblico, con una certa varietà di compositori, epoche e generi, in grado di soddisfare anche i più esigenti. La musica non è uno 'sfondo' della danza ma viene trascinata in primo piano ogni volta. Uno spettacolo-concerto dei CelloPointe è in grado di riempire i sensi dall'inizio alla fine e di far rivalutare il ruolo della musica nella danza. «Sempre più - afferma Marcia Wiley -, vediamo la musica dal vivo usata nella programmazione della danza. La più grande tragedia di questa tendenza è trascurare il musicista come artista. Mi fa male assistere a una performance in cui i musicisti sembra che debbano solo tirar fuori il metronomo per trovare il battito necessario ai ballerini. O vederli dimenticati sul palcoscenico mentre aspettano che i ballerini tornino. Una delle più grandi soddisfazioni di CelloPonte è stata quella di reinventare l'uso della musica nella danza come una forma d'arte viva. Tutti gli artisti della nostra compagnia devono sentirsi reciprocamente, respirare e reagire insieme in quel dato momento sul palco. L'interpretazione musicale di un pezzo conta quanto quella di una coreografia e, in entrambi i casi, deve essere prima di tutto emozionale. Questo è ciò che rende CelloPointe un'esperienza veramente unica».

Il buon esempio del Teatro Pubblico Pugliese

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Più vendite e più pubblico, in uno dei circuiti più funzionanti in Italia. A svelarne il segreto è Gemma Di Tullio, responsabile della programmazione danza

Quella del Teatro Pubblico Pugliese è una felice esperienza che parla di crescita e di positività, in un panorama - quello della danza - che ha attraversato momenti difficili in Italia. La responsabile della programmazione danza, Gemma Di Tullio, sta passando l'estate a girare in lungo e in largo per il tacco d'Italia, per fare sopralluoghi e stringere accordi con l'obiettivo di veder crescere Tersicore nella sua amata Puglia. Sforzi che la stanno ripagando con soddisfazioni, visto che il suo settore è in crescita esponenziale e funziona in una straordinaria simbiosi con il presidente Carmelo Grassi e le altre donne del TPP Giulia Delli Santi, responsabile della programmazione generale, e Adriana Marchitelli dell'Ufficio programmazione del teatro per ragazzi. Di Tullio, da ben dodici anni, dirige il comparto danza del Teatro Pubblico Pugliese, ormai uno dei circuiti più funzionali visti in giro per l'Italia. E a sentirla parlare è un fiume in piena, divertita e divertente nel suo balenare idee e progetti in ogni angolo della Puglia, finanche quelli più remoti.

Qual è il futuro prossimo del Teatro Pubblico Pugliese e della danza in Puglia?

«La funzione del TPP e del comparto che dirigo è quello di promuovere e valorizzare la danza pugliese e in Puglia. Lavoro strenuamente affinché arrivino in regione le migliori compagnie, i coreografi più interessanti e i titoli più o meno appetibili al nostro pubblico. Devo preoccuparmi tanto della programmazione barese del DAB, quanto di quella dei comuni più piccoli ma sensibili alla presenza della danza nei propri teatri e nelle location più impensabili. Sui quarantotto teatri nell'orbita del TPP almeno venti abbracciano la danza con uno o più spettacoli e iniziative coreutiche. La strada è ancora lunga ma negli ultimi anni si è registrata una crescita davvero significativa. E in questo futuro prossimo riavremo l'Aterballetto con i "Golden Days" di Joahn Inger, Roberto Zappalà con "I am beautiful", Mauro Astolfi con "Rossini Ouvertures", Virgilio Sieni con "Il cantico dei cantici" e "Pulcinella Quartet", MMCompany con un programma a sorpresa e tanti giovani coreografi emergenti e provenienti dalle migliori realtà, soprattutto nazionali».

In attesa della riapertura del Teatro Piccinni di Bari, il valore aggiunto del TPP è dunque la diversificazione dell'offerta?

«Si può dire che sia una 'matriosca' di tante cose e persone che funzionano bene insieme. A partire dal presidente Carmelo Grassi fino all'ultimo macchinista del teatro più piccolo della regione. Qui si lavora davvero all'unisono, nel senso che nessuno rema contro per il solo e unico bene della danza in Puglia. Ogni teatro della regione ha la sua storicità coreutica, contemporanea, autoriale o classicissima. E noi andiamo incontro alle esigenze di ogni nostro pubblico, fidelizzando quello storico e cercando in ogni dove quello nuovo dei giovani. Forse è proprio la scommessa con i giovani il nostro valore aggiunto, nel senso che abbiamo spostano il baricentro dalle grandi produzioni e del rimpianto Teatro Piccinni alle proposte della scena e del palco, avvicinandoci sempre più al pubblico giovanile».

In che modo, visto che in Italia tutti lamentano un diffuso calo delle vendite ai botteghini?

«Con Adriana Marchitelli stiamo facendo un lavoro straordinario, stanando uno a uno tutti i giovani delle nostre scuole della regione. Ma li stiamo avvicinando non soltanto con i titoloni di cassetta bensì con programmi assai più intelligenti e lungimiranti perché il nostro obiettivo è formare il pubblico del futuro, senza se e senza ma. A questo proposito mi piace ricordare il prossimo spettacolo "Col naso all'insù" di Giorgio Rossi, dopo i successi del passato con il duo Abbondanza/Bertoni. E poi ci sarà la quarta edizione del festival natalizio leccese "Kids!", altra occasione di altissima formazione per bambini addirittura dai tre anni in su. Senza dimenticare la sezione per ragazzi del DAB Kids e di tutte le nottate che passiamo a scrutare all'orizzonte un'altra bellissima idea per accostare i giovani alla danza e viceversa, in un rapporto che possa essere più naturale possibile. Ce la stiamo davvero mettendo tutta».

Qual è, in sintesi, il segreto del fenomeno coreutico pugliese?

«Dal 2015 al 2017 la rassegna DAB, in scena per cinque mesi da gennaio a maggio, ha fatto registrare un aumento del numero di biglietti venduti considerevole: dai 1.800 siamo passati a 2.240. E lo stesso discorso vale per "Prospettiva Nevskij" di Bisceglie diretta da Carlo Bruni con un incremento addirittura del 40 per cento della vendita al botteghino. Sono numeri importanti che accostiamo al successo di Barletta con i "Corpi in mostra" di Mauro De Candia e ancora a Bisceglie con "Libero Corpo" di Giulio De Leo. Un gruppo di persone prezioso che "mi aiuta tanto ad aiutare la danza". Si lavora tutti insieme cercando di alzare l'asticella della qualità ogni giorno dell'anno».

Spesso parli al plurale. Chi ti segue e chi segui incessantemente?

«Beh, in verità, a parte il presidente e la responsabile delle programmazioni, il mio è un lavoro a stretto contatto con tantissima gente. Con i nostri soci amministratori pubblici, con gli artisti e le loro frequenti richieste bizzarre, con i fotografi, gli scenografi, i giornalisti e tutti quelli che campano con noi nel magico circo della danza. E poi in verità sono particolarmente affezionata e riconoscente a Mimmo Iannone, direttore artistico della compagnia Altradanza che ha fatto e sta facendo tantissimo per la danza in Puglia. E poi non posso dimenticare i grandi nomi della danza pugliese espatriata quali Emio Greco e Mauro De Candia, e poi i più giovani emigranti Michele Rizzo, Davide Tortorelli e Mirko Guido che contribuiscono con il lavoro d'oltralpe a gratificare i tantissimi giovani che invece sono ancora qui a studiare danza».

Ce l'hai ancora un desiderio a fronte di tutti questi successi?

«Altroché! Vorrei ancora di più stringere il cerchio della valorizzazione delle risorse di questa terra. Tanto dei suoi siti, quanto dei suoi uomini e donne. In primis con l'ottimizzazione delle ricchezze ambientali e architettoniche attraverso la danza urbana che, a mio parere, varrebbe da sé più di tanta promozione turistica fredda e mal veicolata. E poi un'ottimizzazione sincera dei talenti pugliesi, sostenendoli più di quanto già facciamo oggi. Del resto è un orgoglio avere in giro per il mondo e per la Puglia i vari Emio Greco, Mauro De Candia, Tony Candeloro, Fredy Franzutti, Maristella Tanzi, Irene Russolillo, Roberta Ferrara, Ezio Schiavulli e tutti gli altri. Tutti personaggi ormai affermati che continuiamo a sostenere e di cui approfittiamo per incentivare le nuove generazioni a provarci alla sbarra e in scena. Del resto tentar non nuoce, un po' il motto che ci siamo imposti dodici anni fa quando ho realizzato il sogno di stare nella danza e di starci fino all'osso!».

 

© Expression Dance Magazine - Agosto 2017

La lombalgia nel ballerino

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Proposte riabilitative per gli errori tecnici

a cura di Omar De Bartolomeo - specialista in Ortopedia e Traumatologia e dei fisioterapisti Sara Benedetti, Eva Fasolo e Romeo Cuturi

I ballerini ne soffrono per via di alcuni gesti tecnici (salti, lift), le ballerine a causa dell'eccessivo lavoro in arabesque e cambré. I due problemi più comuni? Scoliosi e spondilosi-listesi

Il mal di schiena è una patologia relativamente frequente nel mondo della danza. I ballerini ne soffrono soprattutto per via di alcuni gesti tecnici (salti, lift), mentre le ballerine a causa dell'eccessivo lavoro in arabesque e cambré. Per comprendere l'origine del mal di schiena e cercare di prevenire l'insorgenza di tale sintomo, è bene ricordare alcune caratteristiche anatomiche della colonna. Il rachide è formato da una serie di vertebre, ordinate le une sulle altre e organizzate in modo da identificare tre curve principali: la lordosi lombare, la cifosi dorsale, la lordosi cervicale. Nei ballerini questa ripartizione non sempre viene mantenuta, perché la danza richiede una postura particolare, caratterizzata da un bacino più 'orizzontale' e pertanto una lieve riduzione della lordosi lombare. Questo si assocerà a modificazioni anche delle altre curve dorsali e cervicali.Le vertebre inoltre sono unite tra loro da un importante sistema legamentoso, capace di donare resistenza ma nello stesso tempo flessibilità alla struttura. I movimenti della colonna sono assicurati da un complicato intreccio di muscoli, disposti su tre piani: superficiale, intermedio e profondo. I muscoli più profondi sono anche i più piccoli, generano i movimenti tra una vertebra e l'altra, mentre i muscoli più superficiali sono più voluminosi, lunghi, e più forti. La colonna è soggetta a molte forze durante la stazione eretta, la deambulazione e la pratica di attività come la danza. Numerosi studi sulle forze di carico della colonna dimostrano che in un uomo di 60-70 chili, a livello del tratto lombare, si registra un carico pari a 70 kg quando è in posizione seduta, 210 chili quando il soggetto solleva 20 chili con schiena flessa e ginocchia estese. Questo fa pensare ai carichi che subisce la colonna durante la danza, attività che comprende sollevamenti, cambré, attitude, salti, etc. Se si ha un rachide con vertebre ben allineate, il lavoro muscolare isometrico, eccentrico e in allungamento, permetterà di ottenere schiene forti, flessibili, capaci (almeno in teoria) di grandi escursioni articolari.

medicinaDa un punto di vista anatomico esistono però alcuni fattori che possono limitare la capacità di movimento della colonna del ballerino e quindi generare dolore: la scoliosi, alcune anomalie congenite delle vertebre (la sinostosi, cioè mancata separazione di due vertebre, l'iperlordosi, l'eterometria degli arti inferiori, la spondilolisi/listesi). Di sicuro i due problemi più importanti per i ballerini con il desiderio di intraprendere la carriera professionistica sono la scoliosi e la spondilolisi-listesi (cioè la mancata fusione dell'istmo della vertebra e successivo scivolamento in avanti della stessa). Per scoliosi si intende una patologia malformativa delle vertebre, caratterizzata da inclinazione laterale della colonna associata a rotazione e torsione dei corpi vertebrali. La limitazione è tanto maggiore quanto più grave è l'anomalia anatomica e in base alla sede in cui avviene. Altro fattore di primaria importanza da tenere in considerazione è l'età di osservazione. La scoliosi infatti può peggiorare con il passare degli anni, si aggrava fino a che la schiena cresce. La scoliosi, se di lieve entità, non è un fattore limitante nella danza, sebbene possa essere un limite nella pratica della danza a livello professionistico. Il rischio è, oltre il peggioramento della malformazione scheletrica data da anomali carichi supportati dalla schiena, il ricorrere di fastidiosi mal di schiena fino ad una precoce patologia discale. Da un punto di vista tecnico, una scoliosi può limitare la capacità di escursione articolare del rachide e creare quindi sovraccarichi.

In un ballerino, soprattutto di sesso maschile e intorno ai 14-16 anni, spesso si assiste a un dolore lombare localizzato al passaggio lombo-sacrale. Nella nostra esperienza, questa è la fascia di età dove più spesso si osservano patologie del rachide, dalle più semplici (lombalgia muscolo-tensiva, lombalgia da differenza di lunghezza degli arti inferiori, lombalgia da overlavoro/lift/salti, etc.) a patologie che meritano assoluta sorveglianza medica, come la scoliosi e la spondilolisi. Quest'ultima è una patologia malformativa dell'istmo, che è una regione della vertebra posta posteriormente ai peduncoli, tra le due articolazioni (apofisi). Di solito è asintomatica, ma quando i carichi di lavoro aumentano, soprattutto in presenza di errori tecnici nel cambré e arabesque, alcuni ballerini possono sviluppare dolore lombosacrale. Nel 50-60 per cento dei casi la lisi si complica con la listesi, vale a dire lo scivolamento della vertebra verso il basso e questo può trasformare il dolore lombare in un dolore 'sciatico'. Pertanto non si deve mai sottovalutare il dolore lombare nel ballerino!

Risulta chiaro quindi che molti sono i problemi che possono condurre a un unico sintomo: il dolore lombare (Low Back Pain LBP). In modo didattico, potremmo distinguere quello su base tecnica/errore tecnico, quello su base anatomica (scoliosi, spondilolisi) e quello frutto di patologie (fratture da stress, ernia discale, etc.). In ogni caso, per ridurre la possibilità di andare incontro a patologie, occorre lavorare molto sulla prevenzione, e quindi sulla preparazione atletica del ballerino e sulla correzione degli errori tecnici.

L'approccio terapeutico del ballerino con lombalgia è multidisciplinare. Inizialmente il fine è quello di ridurre la sintomatologia dolorosa: tale obiettivo è tanto ovvio quanto fondamentale, poiché soltanto la riduzione del dolore può permettere la ripresa della performance muscolare corretta. A tal scopo, il fisioterapista , in questa prima fase, può svolgere sedute di terapia manuale e/o terapia fisica in sinergia con l'eventuale piano farmacologico prescritto dal medico. Si può valutare, inoltre, l'applicazione di un tape elastico terapeutico: nella Figura 1, si mostra un'applicazione di tipo inibitorio e di tipo fasciale-antalgico, con l'obiettivo di 'scaricare' la zona lombare dolente.

Quando la fase acuta è risolta, è necessario impostare un programma riabilitativo rivolto alle cause che hanno scatenato nel danzatore il quadro doloroso. In generale, si può dire che tra le diverse tipologie di lombalgia riscontrabili nei danzatori si trova con maggiore frequenza quella cosiddetta 'meccanica'. La lombalgia meccanica è conseguente all'incapacità del ballerino di distribuire correttamente il carico di lavoro richiesto durante la pratica della danza. Questo controllo deficitario si manifesta in due modi differenti: in primis, in fase dinamica soprattutto durante i movimenti che interessano direttamente la colonna (ad esempio nei cambré) e/o durante i movimenti che interessano gli arti inferiori (ad esempio nei développé, arabesque, etc.) (Figure 2-3). Il ballerino rischia di affidarsi troppo a muscoli grandi e potenti, come il retto addominale o ai muscoli paraspinali superficiali e ancora ai più grandi flessori delle anche (l'ileopsoas), trascurando e quindi riducendo il reclutamento e l'utilizzo dei piccoli profondi muscoli che controllano la colonna vertebrale e il bacino. L'eccessiva instabilità del 'centro' o 'core' è dovuta al mancato controllo dei muscoli profondi della colonna e dei muscoli che controllano maggiormente i movimenti lombo-pelvici (ad esempio, il trasverso dell'addome e gli obliqui). Questi muscoli, se riallenati in modo specifico, permettono di costruire un 'corsetto naturale' che ha il compito di tutelare la colonna preservandola da movimenti eccessivi.

Per aumentare il controllo del 'centro' si possono impostare diversi esercizi. Il programma di esercizi terapeutici deve avere due caratteristiche fondamentali: essere progressivo e graduale. Generalmente si inizia con esercizi da posizione supina sul tappetino. In questa posizione il ballerino impara a percepire le curve fisiologiche della colonna e la posizione del bacino (Figura 5). Il ballerino posiziona le mani sul bacino (in particolare sulle SIAS) per meglio percepire gli eventuali movimenti. Mantenendo la posizione supina inizia il lavoro di reclutamento della muscolatura profonda. Tale muscolatura, rappresentata dal trasverso dell'addome e dagli obliqui interni ed esterni, permette la stabilizzazione del bacino durante il movimento degli arti inferiori. Conservando la stabilizzazione del bacino, grazie al reclutamento di tali muscoli, il ballerino svolge semplici rotazioni esterne di anca a ginocchia flesse in maniera alternata. Se con questo esercizio di base si osserva la capacità di controllare il bacino, si prosegue con esercizi con un livello di difficoltà crescente fino a giungere alla richiesta di svolgere sequenze di passé-développé da supini con schiena o gambe appoggiate sulla fitball (Figure 6-7).

Oltre agli esercizi rieducativi come quelli citati, tramite un lavoro cosiddetto remedial teaching, è fondamentale correggere eventuali errori tecnici, che hanno portato nel tempo alla sofferenza lombare. Uno degli errori tecnici comunemente riscontrabile, ad esempio, è quello nell'esecuzione dei cambré (Figure 2-4 ). Nell'esecuzione di questo gesto si può osservare, a volte, come il danzatore tenda a 'spezzare' la curva troppo in basso nella fase di estensione senza distribuire il movimento su tutta la colonna. Anche questo errore di tipo tecnico si può correggere impostando un esercizio su tappetino da posizione prona, un esercizio in posizione quadrupedica con la pancia appoggiata su fitball o un esercizio in piedi. In tutti questi esercizi il ballerino, aiutato dal fisioterapista, lavora sulla percezione della propria colonna scomponendo il movimento di estensione sui diversi gradi. Attraverso questo lavoro il ballerino si riappropria del lavoro distribuito su tutta la colonna vertebrale che produce un cambré armonioso.

In ultimo, ma non meno importante, riveste una grande importanza il ruolo dell'educazione alla corretta postura e ai corretti movimenti durante la vita di tutti i giorni.

Le 5 regole d'oro per aiutare i ballerini a mantenere la schiena in salute

1) Svolgere con accuratezza il warm-up prima della lezione, includendo esercizi che preparino la schiena al lavoro in sala.

2) Prevedere degli allenamenti infrasettimanali specifici di rinforzo e di controllo del 'core'.

3) Prestare molta attenzione ai gesti tecnici che interessano direttamente la schiena cercando di distribuire il movimento sulla colonna in modo equilibrato.

4) Porre cura e attenzione anche alla postura durante la vita quotidiana: fare il ballerino in sala… non camminando per strada in città!

5) All'insorgenza dei primi sintomi di dolore lombare, recarsi dal personale medico-fisioterapico competente.

 

© Expression Dance Magazine - Agosto 2017

 

La favola di Andreas Muller

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Per la prima volta un ballerino vince "Amici": è riuscito ad evolversi da puro ballerino di hip hop ad artista completo.

Chi l'ha seguita, sa che quella del Andreas Muller ad "Amici 16" è una storia senza precedenti. Ventuno anni, di origine per metà tedesca e per metà italiana, nato a Singen in Germania ma cresciuto a Fabriano (Ancona), dopo una bocciatura iniziale il ballerino ha fatto il suo ingresso nella scuola di talenti di Maria De Filippi nel 2016. Quando, dopo mesi di duro lavoro e sfide superate, il sogno di arrivare al serale era a un passo dal realizzarsi, Andreas ha dovuto abbandonare il talent a causa di un brutto infortunio al gomito. Ma alle delusioni è seguito il riscatto: il danzatore si è riguadagnato prima il banco e poi l'accesso alla fase serale. Fino al trofeo e all'annesso assegno da 150mila euro. Con oltre il 60 per cento delle preferenze del pubblico (circa 5 milioni di voti) ha infatti battuto il cantante Riki, diventando il primo ballerino a vincere il programma dopo un decennio di trionfatori canterini.

 


Andreas Muller sarà a Campus Dance Summer School a Ravenna dal 10 al 14 luglio 2020

Scopri di più >


 

 

 

Andreas Muller, come sei riuscito a far vincere la danza?

«Non mi sono mai reputato 'il ballerino perfetto'. Se una persona in Italia immagina un ballerino, non credo che associ me a quella sagoma poiché non ne rispecchio i canoni da un punto di vista di linee e tecnica. A me piace esprimere quello che provo, mi 'piace' ballare per 'poter' ballare, per far sentire quello che sono. Ritengo che questo sia stato percepito da chi mi guardava da casa. Non amo lodarmi e mettere in evidenza i miei punti di forza, preferisco siano gli altri a farlo. Ma se devo motivare la mia vittoria, allora penso che il pubblico in me abbia visto qualcosa che andava al di là della tecnica: ha visto delle emozioni, una storia, qualcosa di vero e di umano».

Quando è entrata la danza nella tua vita?

«La prima volta che ho ballato avevo nove anni. Ho frequentato una scuola solo per un paio di mesi, facendo anche il saggio finale. Poi ho smesso per ricominciare a quindici anni. Quindi, anche se c'è stato un primo approccio da bambino, ho iniziato a studiare seriamente solo sei anni fa».

Durante il periodo di studio quali sono state le figure importanti per la tua crescita artistica?

«Ho cominciato a studiare in una scuola di Fabriano, in provincia di Ancona, con i maestri Daniela Cipollone, Peter Valentin, Mauro Bocchi e Anna Gasparini. Ho proseguito con stage in giro per l'Italia, per poi far parte per un paio d'anni della N. Ough Company, guidata dai ballerini di hip hop Filippo Ranaldi e Alessandro Steri. Mentre recentemente l'insegnante con cui mi sto maggiormente perfezionando è Veronica Peparini».

Quanto è stata importante per il tuo percorso la maestra Peparini?

«Tantissimo. Tutti hanno potuto vedere quello che è accaduto ad "Amici", il modo in cui lei combatteva per me e credeva in quello che facevo. È stata fondamentale sia a livello umano che professionale poiché ha arricchito il mio bagaglio facendomi aprire, per quanto riguarda la danza, a nuovi orizzonti».

Perché hai deciso di prender parte ad "Amici"?

«Quando ho iniziato a ballare sognavo l'America. Ma quando cresci in una piccola provincia e credi in quello che fai, tanto da volere che diventi il lavoro della tua vita, ti rendi conto che devi trovare dei trampolini di lancio. E secondo me "Amici" era un grandissimo trampolino, una possibilità pazzesca per mostrare quello che so fare e, al contempo, per studiare gratuitamente».

Il primo provino non è andato bene. Ne hai compreso i motivi?

«Sì. L'ho preso sottogamba, affrontandolo con molta superficialità. Mi ero presentato pensando fosse un'esperienza. Ed è stato giustissimo sia andata così perché se non si è convinti in prima persona, non si è in grado di convincere neanche gli altri».

Quando poi sei riuscito a entrare nella scuola il tuo percorso, lo scorso anno, si è interrotto a causa di un infortunio. Chi ti è stato vicino e quanto è stato difficile ricominciare?

«È stata durissima. Appena sono uscito dalla scuola ho alzato dei muri, non volevo sentire nessuno, allontanavo tutti. Nonostante ciò, ci sono state tante persone che mi sono state vicino: quelle con cui sono cresciuto e che ci sono sempre state, come i familiari, i miei amici e gli insegnanti, e quelle che ho conosciuto in questi anni e nel programma, a partire dalla stessa Veronica Peparini».

Non hai mai mollato. La tenacia è il tratto dominante del tuo carattere?

«Sì. Son sempre stato testardo e determinato».

Com'è stato lavorare con Giuliano Peparini?

«Un'esperienza bellissima. Giuliano è una delle risorse più importanti che abbiamo in Italia. È stato un ballerino riconosciutissimo e oggi è un coreografo eccezionale e uno straordinario direttore artistico. Poter lavorare vicino a una persona come lui, con alle spalle una simile esperienza, è un onore. Ti permette di scoprire un mondo nuovo, non puoi che lasciarti travolgere e prendere tutto quello che ti trasferisce coreograficamente e umanamente».

La coreografia, tra quelle interpretate, che ti ha più emozionato?

«Quella sulla donazione degli organi».

Hai dichiarato che la danza ti ha salvato, poiché hai trovato il modo di poter essere capito senza parlare…

«È così. Sono sempre stato un ragazzo molto sensibile, timido, spesso chiuso e al contempo chiacchierone quando trovo la persona che penso possa essere comprensiva e vicina a me. In realtà non mi sono mai espresso bene e ho trascorso anche periodi altalenanti durante la mia infanzia e la mia crescita. Quando ballavo, invece, mi sentivo diversamente. Non so spiegare il perché, forse non c'è un motivo, ma quando ballo, quando sono in scena o in sala prove, sto bene, riesco a staccare da tutto».

Maria De Filippi ti ha chiesto di tornare ad "Amici" da professionista. Ti ritroveremo nella prossima edizione del talent?

«È stata una bellissima offerta, a cui aspirano tantissimi ballerini. Ma per ora voglio concentrarmi sul lavoro di questi mesi, se si guarda troppo oltre non ci si dedica bene al presente. Darò la mia risposta tra settembre e ottobre e vorrei fosse una sorpresa».

Hai invece un consiglio per i prossimi ballerini della classe di "Amici"?

«Consiglio loro di non farsi mettere i piedi in testa da nessuno, di farsi rispettare, di non lasciarsi intimorire, di essere sicuri di quello che sono, senza farsi stravolgere da paure e paranoie. Io ho commesso questo errore, però se si è forti e si crede in quello che si fa qualsiasi attacco, critica o presa in giro ti fa rimanere indifferente. Inoltre, dico loro di essere originali, di portare la loro unicità».

Infine, quali sono i sogni nel cassetto di Andreas?

«Desidero vedere come si lavora negli Stati Uniti. Mi piacerebbe riuscire a non fermarmi mai, lavorare tanto, approfittare di questo momento per studiare e crescere sempre di più. In Italia, poi, ci sono molti teatri, spettacoli, qualche tour. Vorrei fare tutte queste cose e magari, poiché spesso danza e musica si uniscono, sogno di partecipare a un video di Marco Mengoni, uno dei miei artisti preferiti».

 

© Expression Dance Magazine - Agosto 2017

 

 


Andreas Muller sarà a Campus Dance Summer School a Ravenna dal 10 al 14 luglio 2020

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Nicoletta Manni il più bel cigno

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A tredici anni ha lasciato il mare e il sole della Puglia per inseguire il suo sogno: entrare all’Accademia del Teatro alla Scala. Nicoletta Manni ha tenuto a bada la nostalgia per la sua terra e la sua famiglia grazie all’amore per la danza. A diciassette anni si è diplomata e, essendo troppo giovane per entrare nel Corpo di ballo scaligero, è volata a Berlino. Ma il richiamo del teatro che l’ha vista crescere è stato forte, tanto che la danzatrice di Galatina nel 2013 è tornata alla Scala, dove fin da subito ha ricoperto ruoli importanti. Il 2014 l’ha vista incoronata prima ballerina, dietro scelta del direttore del Ballo Makhar Vaziev, e il suo debutto con la nuova nomina è stato esplosivo: ha danzato il ruolo di Odette/Odile nel “Lago dei Cigni” andando in scena subito dopo l’étoile Svetlana Zakharova. Da lì è stato tutto un susseguirsi di grandi ruoli da protagonista, tournée e riconoscimenti, come la candidatura al prestigiosissimo Premio Benois de la Danse 2015.

Nicoletta, com’è nata la tua passione per la danza?

«Mia madre ha due scuole di danza, una in provincia di Lecce, l’altra in provincia di Brindisi. Tutti i giorni le chiedevo di portarmi con sé al lavoro. Lei all’inizio era titubante, anche perché ero molto piccola, avevo solo due anni e mezzo, ma alla fine ha ceduto alla mia richiesta. Ho iniziato per gioco. Poi, col passare del tempo, sono stata sempre io a spingere, a voler fare di più, chiedendo di sostenere l’audizione per entrare all’Accademia del Teatro alla Scala». 

Dei primi tempi in Accademia cosa ricordi?

«L’inizio è stato sicuramente entusiasmante: ero di fronte al cambiamento, a una vita nuova e soprattutto stavo finalmente realizzando il mio sogno. Ma ero pur sempre una bambina che si trasferisce lontano da casa. Col passare del mese e degli anni, vedendo anche che le mie compagne che abitavano nelle vicinanze potevano tornare tutti i week-end a casa, la mancanza della mia famiglia ha cominciato a farsi sentire. Però la passione e la voglia di andare avanti erano sempre molto forti, mi hanno aiutata a superare le tante difficoltà. Non solo quelle di staccarsi dai genitori e dalle proprie abitudini, ma anche quelle di natura pratica. L’entrare in un’accademia, stare sempre in convitto con i compagni, nonostante si respiri una bellissima atmosfera, è difficile da gestire a quell’età».

Come sei riuscita a gestire la situazione?

«Ho avuto l’appoggio della mia famiglia che, nonostante la lontananza, è sempre stata presente. Mi è stata vicina e mi ha sostenuta in tutti i momenti di debolezza, aiutandomi a capire che avevo fatto la scelta giusta. Credo, poi, che conti molto anche il carattere. Negli anni ho visto molte ragazze nate per fare questo mestiere ma non abbastanza forti, che ai primi ostacoli hanno ceduto».

Quali doti, secondo te, non devono mancare a chi vuole fare questo lavoro?

«Oltre alle doti fisiche e alla passione, è necessaria tanta forza di volontà. Senza l'impegno è difficile arrivare lontano, ci si fermerebbe alle prime difficoltà, invece che superarle e volere sempre di più da se stessi».

Quali sono gli incontri che ritieni siano stati fondamentali per la tua crescita artistica?

«Sicuramente tutti gli insegnanti che mi hanno seguita a scuola, nel mio percorso da allieva, e i direttori Annamaria Prina e Frédéric Olivieri. Ma l’incontro più importante è stato quello con il mio ex direttore Makhar Vaziev, che mi ha riportata alla Scala e mi ha aiutata a entrare in questo mondo. Lui mi ha dato tantissime possibilità, fino alla promozione a prima ballerina».


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Quando hai compreso che la danza poteva rappresentare il tuo futuro professionale?

«Il ‘clic’ è avvenuto negli anni della scuola di ballo, quando mi sono accorta che anche nei momenti in cui avvertivo la mancanza della mia famiglia riuscivo ad andare avanti, volendo continuare il mio percorso. Questo mi ha fatto capire che stavo facendo la scelta giusta».

Dopo il diploma alla Scala hai lavorato per tre stagioni allo Staatsballett di Berlino. Che esperienza è stata?

«All’inizio è stata una scelta obbligata perché mi sono diplomata a diciassette anni. Essendo ancora minorenne, in Italia non ho potuto fare audizioni. La prima che ho sostenuto all’estero è stata a Berlino, dove mi è stato subito proposto un contratto per due anni. Ho deciso di approfittare di questa occasione, e credo che tutti dovrebbero fare un’esperienza all’estero che è di grande utilità. Per me è stata molto importante, mi ha permesso di danzare, come corpo di ballo, tanti titoli sia del repertorio classico che contemporaneo. Ho fatto la gavetta e quando son tornata a Milano ho rivalutato tante cose che prima mi sembravano poco rilevanti».

Com’è stato tornare a Milano dopo il periodo in Germania?

«Sono cresciuta a Milano, quindi è stato come tornare a casa ma comunque in un modo diverso perché il teatro l’avevo vissuto meno. Essendo minorenne, e anche durante l’ultimo anno della scuola di ballo, non avevo lavorato con la compagnia. Per me era un mondo sconosciuto, pertanto il rientro ha rappresentato un nuovo inizio».

L’inizio di un percorso che nel 2014 ti ha portata a essere nominata prima ballerina. Cosa ha significato questo traguardo?

«Sicuramente una grande gratifica per i tanti sacrifici fatti. Anche se mi piace guardarlo più come un punto di partenza perché la nomina non vuol dire essere arrivati al massimo delle proprie potenzialità. Credo che un danzatore non debba mai fermarsi, nonostante possa ricevere dei riconoscimenti. Diventare prima ballerina ha rappresentato una grande soddisfazione ma anche una grande responsabilità: quando vai in scena come prima ballerina del teatro alla Scala il pubblico si aspetta una performance di un certo tipo».

Prima di salire sul palco cosa provi?

«La giusta tensione, che è normale ci sia. Anche se non è un debutto, uno spettacolo è sempre una nuova esperienza, mi accompagna sempre un pizzico di adrenalina».

Tra i ruoli che hai interpretato qual è quello che ti ha maggiormente emozionata?

«Il Lago dei cigni” nel 2013. Un grande balletto del repertorio, che è anche il mio preferito e che è stato il mio primo ruolo da protagonista alla Scala. Erano quindi tante le componenti per provare tutta questa emozione, agitazione e adrenalina». 

Il tuo compagno di vita Timofej Andrijashenko è anche il tuo partner in scena. Com’è condividere il palco con la persona che si ama?

«Ci sono i lati positivi e quelli negativi. Tra quelli positivi, il fatto che ho sempre qualcuno al mio fianco che mi può aiutare. Ci sosteniamo a vicenda, e siamo insieme anche se andiamo a fare degli spettacoli all’estero. Inoltre, ballare insieme in teatro è bellissimo. L’aspetto negativo è che ogni tanto si porta del rancore a casa, quindi c’è qualche litigio in più. Ma tutto sommato i pro sono di più dei contro».

Tra i tuoi partner di scena c’è Roberto Bolle. Lontano dal palco c’è la stessa sintonia che avete in scena?

«Assolutamente sì. Lui è una persona speciale, mi ha aiutata sia dal punto di vista artistico che personale. È molto umile, sa ascoltare e dare consigli. È una persona a cui voglio molto bene, gli sono molto grata. C’è una bella sintonia tra noi».

Ci descrivi una tua giornata tipo?

«Quando non c’è uno spettacolo, la mia giornata comincia alle 10 con la lezione, che termina alle 11.15. Poi iniziamo le prove e, dopo una pausa pranzo di 40 minuti, noi primi ballerini lavoriamo fino alle 17.30. Ma ovviamente non si finisce mai». 

E quando hai del tempo libero come ami trascorrerlo?

«Purtroppo capita molto raramente di avere del tempo solo per me. Quindi, mi piace andare a casa dai miei genitori e passare del tempo con loro. Quando non riesco ad andare in Puglia mi faccio raggiungere da loro perché mi mancano sempre tanto».

Riescono spesso ad applaudirti in teatro?

«Quando possono ci sono sempre. Da poco sono stati in teatro per la mia prima di “Sogno di una notte di mezza estate” e per “Il lago dei cigni”». 

Cos’è la danza per te?

«È banale dirlo, ma la danza è la mia vita. È quello che riempie le mie giornate, è il mio pensiero costante. Noi ballerini ci dedichiamo completamente alla danza, siamo molto concentrati, tanto che a volte ci accorgiamo poco di quello che succede attorno a noi. Viviamo nel nostro mondo». 

Che consiglio dai ai giovani che sognano un futuro da ballerino?

«Di non mollare mai. Se il loro obiettivo è di fare i ballerini in tutti i campi della danza, che sia classica o moderna, il mio suggerimento è quello di portare avanti la propria passione mettendoci tanto impegno, tanta forza di volontà, carattere e soprattutto umiltà, perché senza quella non si arriva a diventare dei grandi artisti».

Un sogno nel cassetto?

«Tanti sogni continuano a realizzarsi ogni giorno. È sempre una sorpresa. Ma sicuramente sogno di poter interpretare quanti più ruoli possibile del repertorio classico e contemporaneo. Vorrei poter ballare nei teatri più importanti del mondo, sia con il mio Teatro che come ospite. E poi basta, ho già tutto».

 

© Expression Dance Magazine - Agosto 2017

Lanfranco Cis e le sfide del Festival Oriente Occidente

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Nato nel 1981 in Trentino a Rovereto, città da sempre aperta al gusto del nuovo, del moderno e della ricerca culturale, "Oriente Occidente" è diventato uno dei più importanti festival europei di danza contemporanea e di teatrodanza, che per tradizione si svolge nella prima metà di settembre (ndr, quest'anno dal 30 agosto al 10 settembre). Un festival di ricerca e di tendenza, in cui Oriente e Occidente sono intesi come poli di un percorso ideale di scambi e incroci non solo tra culture, ma anche tra generi e linguaggi della scena contemporanea. Negli anni ha ospitato quasi sempre apposite produzioni o compagnie europee o italiane e artisti tra i più importanti e significativi della scena della danza internazionale. Nei suoi 36 anni di attività, lo spirito del festival è stato quello di mettere in scena le reciproche influenze esercitate nel Novecento dalla tradizione artistica orientale sulla sperimentazione occidentale e viceversa. "Oriente Occidente" diventa così un viaggio circolare tra teatro e danza, ricerca e tradizione, identità e innovazione. Fondatore e condirettore artistico del festival dalla sua fondazione a oggi è Lanfranco Cis, che è anche responsabile artistico di progetti culturali per conto della Provincia Autonoma di Trento e di altre amministrazioni pubbliche, consulente artistico della Fondazione Nuovo Teatro di Bolzano e dal 1995 del Centro Servizi Culturali Santa Chiara di Trento per la programmazione della stagione di danza.

Lanfranco Cis, qual è il compito della direzione artistica di un festival come Oriente Occidente?

«La nostra principale missione è quella di pensare a un progetto. Questo significa che non basta inanellare i soli spettacoli più belli, come se fosse una specie di Top Ten, in quanto occorre inserirli all'interno di una programmazione che abbia un preciso filo conduttore. D'altra parte è proprio ciò che distingue un festival da una rassegna. Per esempio, quando abbiamo pensato a temi quali "Corpi in conflitto" o "Corpi e confini", ci siamo interessati a tutte le espressioni artistiche che intrecciano questi argomenti. Gli spettacoli di un festival sono capitoli di un cartellone unitario che anche il pubblico deve poter percepire come tale. Nella consapevolezza che si può scegliere di 'leggere' tutti i capitoli o solo alcuni. L'individuazione di un filo conduttore ci facilita nell'individuazione di alcuni spettacoli e nell'eliminazione di altri considerati non attinenti. Bisogna sforzarsi di andare in questa direzione. A volte la cosa riesce bene, altre volte meno. Ma l'importante è mantenere una certa coerenza».

Come nasce il festival Oriente Occidente? In quale contesto e con quali obiettivi?

«Il nostro festival trae origine certamente da una grande passione per il teatro e dal desiderio di mettere a confronto due mondi diversi: l'Oriente e l'Occidente. Ma non tanto da un punto vista geografico… Nel corso degli anni Ottanta, c'era un grande fermento teatrale, Eugenio Barba per esempio parlava del cosiddetto 'terzo teatro', e si era appena scoperto l'interessante varietà del mondo orientale, che ha molto arricchito la nostra ricerca. Mentre in Occidente distinguiamo fra danza, balletto e teatro, l'Oriente è tutto ricompreso nella parola 'drama'. I primi che sono riusciti a inserire la nuova coreografia italiana e internazionale sono stati gli organizzatori del festival di teatro di Santarcangelo. Loro hanno proposto i lavori innovativi di Sosta Palmizi, Virgilio Sieni ed Enzo Cosimi. Gradualmente nella danza l'attenzione al teatro diventa attenzione verso il contemporaneo. Sin dai primi anni del nostro festival ci siamo focalizzati sulla danza contemporanea».

Cosa caratterizza le vostre programmazioni?

«Il vivere in prima persona il senso dello stupore, dell'avventura e della ricerca. Se noi ci riusciamo e siamo dunque i primi stupirci, allora riusciremo a coinvolgere in questo stupore il pubblico. La nostra è stata un'avventura senza 'paracaduti', senza guardare al bello o al meno bello, al noto o al meno noto, ma al semplice desiderio di viverla con la speranza che qualcun altro potesse poi avere la stessa curiosità. A un certo punto, abbiamo però capito che non potevamo limitarci all'avventura, ma che dovevano anche andare alla ricerca di giovani talenti, coreografi e compagnie, per favorire la creazione, grazie alla disponibilità di spazi per concedere residenze. L'obiettivo non è più fare solo dieci giorni di festival, ma proporre un'attività creativa continuativa per sostenere i più meritevoli, con un occhio di riguardo per le compagnie italiane».

Far scoprire nuove compagnie significa farle apprezzare dal pubblico…

«Certamente, e questo è un altro importante tassello del nostro lavoro. Personalmente mi occupo anche della programmazione del circuito regionale della danza e so bene quanto il pubblico richieda soprattutto di replicare all'infinito titoli noti come "Schiaccianoci" o "La Bella Addormentata". Ma non possiamo fare solo questo tipo di spettacoli, dobbiamo anche far sì che il pubblico possa vedere qualcosa di diverso ed essere attirato da nuove creazioni. Per riuscire in questo intento, il pubblico va aiutato a crescere attraverso suggestivi e coinvolgenti percorsi di formazione. D'altra parte, questo è quanto ci viene richiesto anche dai bandi europei ogni qualvolta presentiamo qualsiasi progetto di teatro o di danza».

Cis sarà, per la prima volta, ospite del Concorso Internazionale di danza Expression 2018. Per l'occasione, offrirà ad alcuni dei migliori partecipanti, borse di studio per stage formativi a cura di "Oriente Occidente" e biglietti per l'edizione 2018 del festival. Maggiori informazioni sul concorso su www.concorsoexpression.com 

 

© Expression Dance Magazine - Agosto 2017

 

Il Balletto del Sud di Fredy Franzutti

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Considerato uno dei più apprezzati coreografi italiani, Fredy Franzutti - dopo essere stato in giro per l'Italia con il suo "Romeo e Giulietta" - si è scoperto ancor più produttore di prima quando la Regione Puglia gli ha affidato titoli della tradizione operistica italiana, quali "La Traviata" e "Madame Butterfly". Un peso importante quello dell'opera lirica che nel Leccese è di casa grazie alla presenza storica e rassicurante del tenore Tito Schipa, scomparso circa mezzo secolo fa a New York. Una figura che ha molto contato nella formazione di Franzutti che dal 1995 è fondatore e direttore artistico del Balletto del Sud, per il quale ha creato un repertorio di 34 spettacoli. Nel corso della sua carriera ha inoltre realizzato balletti per diversi teatri internazionali fra cui il Bolshoi di Mosca, il Teatro dell'Opera di Roma, l'Opera di Montecarlo, l'Opera di Magdeburg, Sophia e Tirana, per diversi enti lirici italiani e per trasmissioni Rai. Ha ricostruito balletti perduti sotto la guida di Beppe Menegatti e curatoa le danze di opera di produzioni realizzate in Francia, Spagna, Russia e numerose in Italia, a fianco di registi come Pier Luigi Pizzi, Mauro Bolognini, Beppe De Tomasi, Flavio Trevisan. Ha realizzato coreografie per étoile internazionali come Carla Fracci, Lindsay Kemp, Luciana Savignano, Alessandro Molin, Xiomara Reyes, Vladimir Vassiliev.

Com'è nato il coreografo Fredy Franzutti?

«La mia vocazione è frutto della mia stessa città natale. Lecce è infatti 'culla' di cultura operistica, tra le più colte d'Italia e io sono cresciuto con la passione smodata per la musica e per la sinfonica, oltre che per il balletto naturalmente. Questo sottostrato culturale ha garantito alla città e all'intera provincia una forte partecipazione anche emotiva alla vita teatrale, costringendomi a entrare nel gusto del pubblico con lavori accostati necessariamente ai grandi compositori Ciaikovskij e Prokofiev. Con il passare del tempo, poi, ho saputo 'allineare' anche la danza e il balletto alle attese degli appassionati. E quel legame pare proprio non interrompersi, soprattutto con il vessillo della Regione Puglia che ha individuato in me l'unico erede nell'ambito della produzione de "La Traviata" e "Madame Butterfly" scelti per rilanciare l'opera nel territorio regionale. Sulla falsariga della tradizione girovaga del Balletto del Sud con i novanta spettacoli rappresentati nel 2017 e nel solco della mia grande versatilità e di quella della mia compagine, capaci di reinventarsi nel balletto, nella prosa con musica, nell'opera e nelle tante altre sfaccettature della cultura a tutto tondo».

Ma quanto c'è di Fredy Franzutti nel Balletto del Sud?

«Sono un coreografo neoclassico e come tale mi ispiro costantemente alla storia dell'uomo fino ai giorni nostri. Detto questo, nel Balletto del Sud si può trovare tanto di ciò che si cerca nella storia e nella letteratura secondo un mio punto di vista. Ma guai a contaminare musiche e idee come invece spesso accade. Amo rispettare profondamente il repertorio che va salvaguardato e valorizzato, anche nel rispetto del pubblico. Per queste ragioni se mi chiedono un titolo nazional-popolare va benissimo, tuttavia se posso proporre nuove soluzioni per me è ancora più gratificante. Vorrei fare altro, scoprirmi e scoprire il pubblico anche in altre soluzioni coreografiche alternative ai titoli più noti».

È così che si spiega il repertorio 'double face' del Balletto del Sud?

«È la danza di questi giorni che va così. Anzi, sono gli operatori dei circuiti a decidere le sorti della danza e della sua programmazione. Troppo spesso si cerca il titolo facile a discapito dell'innovazione, peraltro non necessariamente d'avanguardia o di esasperata autorialità. Il Balletto del Sud ha lavorato molto sulla letteratura italiana con studi coreografici su Leopardi, D'Annunzio e per ultimo Pirandello con la "Giara", in occasione del centocinquantesimo anniversario della nascita dello scrittore agrigentino. Ma poi giriamo l'Italia anche con spettacoli consolidati quali "Carmen", "Sheherazade", "Bella Addormentata", "Romeo e Giulietta", "Uccello di fuoco" e tanti altri ancora che ci hanno resi credibili agli occhi degli addetti ai lavori e del pubblico. Di contro non ci siamo però mai fermati a fare ricerca, studiare e creare nuovi titoli che coinvolgessero interlocutori di chiara fama nei rispettivi ambiti con un abbraccio ideale delle mie passioni della danza, della musica e della sinfonica».

Cosa c'è dunque ancora nel cilindro di Fredy Franzutti?

«L'ultimo lavoro sul medico salentino Antonio Galateo è un cammeo del nostro repertorio, pensato e rappresentato in occasione dei cinquecento anni dalla sua morte. Un medico umanista e gentiluomo che abbiamo voluto ricordare con uno spettacolo di teatro, musica e danza com'è nostra consuetudine, attraverso tutte le arti insieme per alzare l'asticella della qualità della nostra offerta d un pubblico che vogliamo sempre più consapevole. Nel 2018 vorrei invece riprendere la coreografia originale o rivisitare "L'après-midi d'un faune" di Claude Debussy, scomparso a Parigi un secolo fa e compositore di uno dei titoli più significativi del Novecento e dell'intera storia della danza».

Nella danza di oggi dove si colloca il Balletto del Sud?

«La nostra è una compagnia con vent'anni e più di appassionata presenza sui palcoscenici ormai di tutta Italia. Contiamo novanta rappresentazioni all'anno con ventidue elementi effettivi per un totale di trenta unità operative in seno alla compagnia. Ci riteniamo e siamo al contempo considerati un'autorevole compagnia di grandi dimensioni e di giro. Ce ne compiacciamo ma guardiamo avanti. Il nostro repertorio neoclassico fa spesso a cazzotti con il finto contemporaneo dilagante che disorienta il pubblico della danza che sceglie troppo spesso altre strade. Cerchiamo i colpevoli perché il pubblico non abbandona mai la propria passione per cui, evidentemente, è la danza che ha abbandonato il nostro pubblico! Gli operatori propongono sempre gli stessi titoli e le compagnie non sanno produrre altro e dunque siamo diventati come un cane che si morde la coda. La nostra compagine assicura la danza di qualità dappertutto perché ci lavoriamo ogni ora di ogni giorno. Com'è giusto che sia. Del resto non ci seguirebbero così numerosi se avessimo tradito il nostro pubblico e noi proseguiamo il nostro cammino alla ricerca della qualità a tutti i costi».

 

© Expression Dance Magazine - Agosto 2017

Emma Portner, energia e talento

Mercoledì, 12 Luglio 2017 11:16

La giovanissima danzatrice e coreografa Emma Portner non conosce frontiere. Nata e cresciuta in Canada nel 1994, condivide le sue grandi doti a livello internazionale, che sia su un palcoscenico o sulle piattaforme dei più noti social media.

Roberta Fontana: ballare emozionandosi

Giovedì, 29 Giugno 2017 11:15 Scritto da

Per Roberta Fontana danzare significa emozionarsi ed emozionare. Ed è questo l’insegnamento che prima di ogni altro si impegna a trasmettere ai suoi allievi nelle scuole e nelle accademie di tutto il mondo. Romana, classe 1971, ha iniziato gli studi nella sua città, proseguendoli a Parigi, a Londra e a New York. Ha ballato in teatro e in numerosi programmi televisivi, per poi dedicarsi alla coreografia e all’insegnamento.

 

 

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