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Danza e fotografia in natura alla ricerca di una nuova umanità

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Proprio in questi due anni in cui il corpo è stato messo bruscamente da parte, ci siamo imbattuti nel progetto Gaia / La nuova umanità in cui il corpo è invece in continuo movimento e ne è l’assoluto protagonista. La ricerca di Gaia nasce da una riflessione personale e condivisa dei fondatori, il fotografo Fabio Sau, il coreografo e danzatore Antonio Bissiri, e la danzatrice Angela Valeri Russo, in collaborazione con la fotografa Lucia Baldini, sulle condizioni in cui versa il pianeta e da un'analisi di ciò che influenza il nostro bagaglio culturale, condizionato da una visione della vita antropocentrica in cui tutto deve piegarsi alla volontà e alle necessità dell’essere umano. Sulle rive del Mar Morto, nel 2019, Il collettivo Prendashanseaux a un certo punto del proprio percorso artistico si è chiesto se questo sistema di mondo in cui viviamo ci rendesse davvero felici e se fosse stato possibile vivere la conclusione di un era e inaugurarne una nuova. La ricerca artistica che portano avanti è di fatto un pellegrinaggio che vuole concludersi in Terra Santa, perché proprio lì è nata l’idea di questo particolare progetto che coinvolgendo danza, movimento e fotografia lavora con il corpo in spazi naturali e in stretta relazione con l’ambiente.

Nel 2020 il progetto ha subito una forte battuta d’arresto nel programma del viaggio a causa della pandemia, ma questo non ha fermato il collettivo che ha portato avanti il progetto esplorando maggiormente la Sardegna, paese di origine dei fondatori per poi proseguire in Emilia Romagna, Toscana, Trentino e Friuli Venezia Giulia.

Mutevole, in dialogo con i luoghi e le differenti comunità che vi abitano, Gaia / La nuova umanità ha lo scopo di costruire un linguaggio e un immaginario comune sul tema del rapporto che esiste fra spiritualità, uomo e natura; il progetto vuole diventare un atto concreto di volontà in cui il pubblico è co-partecipe, co-creatore e co-responsabile. La perfomance che ne deriva è il risultato di una ricerca artistica nella natura selvatica che dura tra i 10 e i 12 giorni in cui i performer cercano una relazione stretta ed inclusiva con l’ambiente circostante. La performance non è uno spettacolo, classicamente inteso, ma una restituzione dello spazio e per lo spazio attraverso il corpo e le immagini fotografiche che mira al coinvolgimento di artisti professionisti, grazie alla loro partecipazione al ritiro " Gaia -custodi della Terra- " che dura cinque giorni immersivi, e in alcuni casi al coinvolgimento di amatori e abitanti del luogo ai quali viene proposto un laboratorio esperienziale di movimento e un laboratorio fotografico esperienziale. 

I due laboratori sono interconnessi ed iniziano sempre insieme per poi proseguire autonomamente così che il fotografo possa sperimentare il linguaggio del corpo e, chi si muove, vedervi ritratto mentre è in relazione con l’ambiente. Le pratiche e gli esercizi proposti vengono delineati e creati in natura durante il periodo di ricerca per poi renderli accessibili attraverso il racconto esterno che si concretizza nei laboratori.

GAIA  nella sua forma completa prevede la creazione di un docufilm le cui immagini sono girate quasi interamente da Fabio Sau, e di un progetto fotografico che diverrà una mostra/installazione e un progetto editoriale attraverso il coinvolgimento di Lucia Baldini‍.

Antonio Bissiri, uno dei fondatori del progetto che ha lavorato come danzatore con compagnie come Esklan Art's Factory, Teatro dei Servi Disobbedienti, Compagnia Bologninicosta, Compagnia Vucciria Teatro e Artemis Danza, si dice soddisfatto di come sta andando il progetto perché attualmente sente che si è consolidato e che è stata protetta la sua natura così particolare. 

“La modalità di ricerca che adottiamo è inclusiva, in tutto il periodo in cui abitiamo il bosco o lo spazio naturale non solo cerchiamo di stabilire una relazione con il luogo, ma ci dedichiamo anche ad esperienze sciamaniche, giorni di digiuno e giorni di silenzio… la performance per noi è solo un momento in cui tiriamo le fila di un discorso”. 

Bissiri crede che sia importante vivere in natura perché allo stato attuale trascuriamo il corpo vivendo troppo a lungo in un contesto urbano, denaturalizzato e che il corpo e anche tutto il resto ne soffre; anche se ammette che se esistesse solo questo sarebbe comunque un limite ed è per questo che sta riflettendo su azioni che possano collegare i due mondi come l’idea, ad esempio, di tenere una classe di danza classica in natura anche di inverno. Questo perché non vuole tralasciare il legame con la sua esperienza in un contesto didattico, però quando ha avuto occasione di entrare in sala si è reso conto che “dove viviamo non ci sono esseri viventi per creare una relazione ma geometrie con uno spazio morto… mi piace ritrovare nel mio progetto invece uno spazio vivo che cambia giorno dopo giorno, dove tutto si trasforma e il corpo scopre qualcosa di nuovo”. 

Secondo Antonio nessuno di noi ha il potere di cambiare meccanismi, bisogna fare piano piano però chi sente qualcosa lo deve ascoltare subito anche se poi ci si sente in crisi uscendo dalla propria centratura ma poi la nuova relazione creata continua nel futuro. Per esempio Bissiri ultimamente ha lavorato con il fango, rimanendoci immerso per un’ora anche per una restituzione pubblica dimostrando che si può provare anche resistenza al proprio corpo: “il mio corpo ha lottato ogni momento per la resistenza e questo gli ha fatto sentire il corpo in maniera totalmente diversa da quello che aveva mai provato in compagnia”.

Ci siamo congedati con una frase che mi ha colpito molto: “ho un po’ meno, ma sto capendo molto di più, cerco di sperimentare un’esigenza artistica in maniera intelligente ma è evidente che ci debba essere un collegamento di mondi che esistono e si devono scambiare a vicenda; che bisogna trovare un equilibrio anche tra tecnologia/progresso con natura per essere creativi e non distruttivi”.

Il progetto ha visto l’ultima sua restituzione in agosto, in un contesto perfetto, Abitare Connessioni, festival che è stato concepito come un “intervento totale” che contribuisce a rifondare lo spazio pubblico e il cui programma artistico nasce dall’incontro e dalla felice contaminazione tra tradizione e iper-contemporaneità. 

Attendiamo nuove tappe e nuove restituzioni del viaggio di Gaia / La nuova umanità (info su: www.gaialanuovaumanita.com) con la convinzione che i contenuti e le modalità proposte da questo progetto possano fare da apripista a nuove modalità esplorative del movimento e della danza.

 

 

 

Foto di © Lucia Baldini

 

© Expression Dance Magazine - ottobre 2021

 

 

Danza e video: i trucchi per comunicare al meglio il proprio racconto coreografico

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La danza, l’arte della performance dal vivo, legata alla coreografia e al tempo stesso espressione viva di improvvisazione, da sempre figlia della maestosità del teatro, dell’ebrezza da palcoscenico, ha dovuto ripensare e ridefinire i suoi spazi: la pandemia, di cui tutti siamo consapevoli e protagonisti, ha portato infatti a enormi stravolgimenti anche nelle modalità di fruizione della danza.

La chiusura dei teatri e dei grandi eventi, l’impossibilità delle persone di usufruire di spazi comuni, ha reso necessario lo sviluppo di nuovi dialoghi tra forme comunicative apparentemente distanti come ad esempio la danza e la produzione video.

A fronte di questi cambiamenti, un confronto con un’esperta del settore ci è sembrato naturale. Leila Cavalli, diplomata in produzione e script supervising alla Civica Scuola di Cinema di Milano nel ’95 ha unito questi due mondi.

Leila, parlaci un po’ del tuo percorso, cosa ti ha portato alla danza e soprattutto alla regia nella danza?

In realtà la danza ha sempre fatto parte della mia vita, anche se in modalità non canoniche. Danza e produzione video sono presenti nella mia vita da sempre, con lo sviluppo di percorsi paralleli, destinati a incrociarsi.  Sono cresciuta nella scuola di teatro di famiglia, in più, mia mamma, da piccola, mi portava sempre in giro per l’Italia e l’Europa per stage di danza contemporanea. In realtà non ho mai frequentato una scuola di danza, ma in questo modo è nato un rapporto libero con essa, privo di vincoli.

Poi a Cesena ho incontrato Sara (Tisselli) e il mio rapporto è ripreso attraverso l’acrobatica e il BodyFlying, discipline che amo, che mi hanno donato tanto e che insegnano tanto anche nella vita.

Per ciò che riguarda il cinema, io mi sono diplomata alla Civica Scuola di Cinema di Milano. Ho avuto la fortuna di incontrare, nel mio percorso, insegnanti eccezionali, con i quali ho potuto vivere concretamente il mondo della produzione cinematografica (in 3 anni di scuola abbiamo preso parte a una cinquantina di produzioni).

Ho avuto modo di continuare con la formazione, specializzandomi alla New York Film Academy e attraverso seminari con grandi professionisti, cominciando poi il lavoro in produzione, sia nella regia, sia come assistente che come montatrice.

Per indole famigliare tutto ciò che apprendevo lo trasformavo in materiale per insegnare cinema nelle scuole, assecondando anche la mia passione per i cartoni animati.

Ora come descriveresti il tuo lavoro, anche dopo questi due anni di pandemia?

Con la pandemia ho approfondito la possibilità di unire la danza alla realizzazione di video professionali, cercando la modalità più efficace per comunicare un racconto di danza attraverso il video, cercando di ragionare e di riflettere sulla coreografia in maniera cinematografica.

Dal momento che passi attraverso un mezzo, devi per forza far passare il racconto da quel linguaggio: far vedere i dettagli, dal passo al gesto tecnico, così da restituire la coreografia che il coreografo pensava di raccontare. 

Diventa qui fondamentale il rapporto tra coreografo e produzione, poiché è impossibile raccontare una storia, senza la comprensione reale e a 360° del creatore di tale storia.

Siamo invasi dalla tecnologia, ma ancora per molti è complicato raccontare e raccontarsi attraverso i video. Secondo te qual è la difficoltà principale di questo linguaggio?

La difficoltà principale è che si usa un mezzo senza conoscerne il linguaggio: ricreare energia differita, usare il linguaggio del cinema, dove diventa fondamentale il movimento, il cambiamento delle inquadrature.

Se non si sa guardare, non si può raccontare. Per imparare a guardare, bisogna prendere tempo e procedere a piccoli passi, in modo da imparare a cogliere le sfumature, a comprendere la coreografia e il suo racconto.

Il linguaggio per immagini in movimento non è immediato, per questo è fondamentale imparare a esprimerlo.

Si tratta di un linguaggio diverso da quello utilizzato nella vita quotidiana. In questo caso è necessaria la fantasia.

Il nuovo corso IDA porterà a unire due linguaggi, quello del corpo in movimento e quello del video, un compito non facile.

Quali saranno le caratteristiche principali del corso partendo da questo presupposto?

Mi preme fare un percorso personalizzato, la mente creativa deve essere una, per cui cercherò di capire, nel più breve tempo possibile, chi sono i partecipanti e vedere come lavorano con il telefonino, in modo da permettergli di arrivare il prima possibile a far scattare il “meccanismo creativo”. Non è un processo scontato, dipende dal talento innato e dalle capacità personali, per questo il corso sarà a numero chiuso: voglio capire il background di ogni singolo partecipante, aiutarlo in questo processo un passo alla volta.

Gireremo tante piccole cose, solo così sarà possibile sviluppare le singole capacità necessarie nella creazione dei “racconti di danza in video”, solo così potrò capire quello che loro “vedono”, capire quello che loro davvero vorrebbero mostrare in base a ragionamenti e sensazioni; solo così potremo arrivare insieme a capire cosa funziona nel racconto e cosa andrebbe tagliato o reso in altro modo.

Come concretizzare il proprio pensiero prima di premere REC?

Per concretizzare il proprio pensiero è ovviamente fondamentale imparare a guardare l’inquadratura e capire cosa voglio raccontare, così da essere davvero consapevole di quello che sto facendo.

Questo passaggio richiede tempo, poi, come dico io, quando scatterà quel “meccanismo creativo” allora tutto il processo sarà automatico.

Per questo motivo, come anticipato poco fa, faremo tanti piccoli video. 

Si tratto di un percorso di grandissima scoperta e grande entusiasmo perché l’evoluzione sarà visibile proprio da subito, da un video all’altro. Nozioni piccole, fondamentali, facilmente assimiliabili.

Imparare a guardare un’inquadratura significa imparare a tenere presente almeno 15 cose. Il mio intento non è lavorare subito su tutti questi 15 punti in contemporanea, ma lavorare per gradi, un passo alla volta: la prima parte sarà caratterizzata dal lavoro sui piani sequenza, senza editing, così da capire tutto, dalla A alla Z.

Poi ci sarà il lavoro sui movimenti di macchina: panoramica e movimenti, perché se non si cambia inquadratura, il racconto muore. Il video è un linguaggio basato sul movimento e il cambio di piano.

Durante la pandemia molti si sono cimentati nella realizzazione di video per documentare le coreografie iscritte a concorsi online, purtroppo però la documentazione fa fatica ad arrivare allo spettatore, perché nella maggior parte dei casi si tratta di video statici: scuole di danza hanno parlato attraverso un linguaggio di un mezzo non loro, che ha reso il racconto più debole. Il mio obiettivo è dar loro questo mezzo, la costruzione di video nella danza, attraverso il quale comunicare al meglio il loro racconto.

Editing: cosa significa per te e come può facilitare il lavoro nella costruzione dei video? 

 

Il montaggio è fondamentale dal punto di vista di questo linguaggio: passare da un’inquadratura all’altra, nella coreografia, significa capire come unire i pezzi, come sottolineare i dettagli da mettere in evidenza.

Ciò non è mai immediato.

In Italia trovi che questo percorso sia adeguatamente compreso e valorizzato? 

No, come tanti aspetti riguardanti le arti, purtroppo in Italia c’è una profonda ignoranza, poiché non si creano spazi conoscitivi e di approfondimento per capire questo linguaggio.

Una delle cose belle del lockdown è stata proprio il risveglio dell’interesse nei confronti di tanti aspetti legati a danza, video e altre forme di arte, che credo ci abbiano salvato la vita: le persone hanno avuto bisogno di fruire dell’arte.

Danza e musica hanno invaso internet e salvato molti cuori.

Credo sia diventato evidente a tutti quanto sia necessaria una formazione dedicata, anche per gli insegnanti, poiché i problemi di comunicazione in DAD sono stati tanti e costanti, diventa oggi necessario imparare a parlare e comunicare anche davanti alle telecamere. 

Negli anni 2000 c’era più apprensione legata al mezzo televisivo in quanto mezzo di comunicazione di massa, questa apprensione è poi scemata con l’avvento di internet: gli insegnanti si sono messi a imparare come navigare, ma non hanno dato molta importanza alla modalità comunicativa del mezzo (la televisione, che non prevedeva partecipazione attiva dello spettatore, aveva suscitato tantissimi dubbi e paure).

Nuovi linguaggi, nuove sfide educative: da cosa è necessario partire nella realizzazione dei video?

Educazione e formazione.

Per poter parlare tutte le lingue, è necessario conoscerle nelle strutture di base, ciò è valido anche nel linguaggio video: se non lo parli, fai fatica a costruire un racconto efficace.

Per partire è necessaria una buona dose di curiosità. Andare alla scoperta in maniera qualificante, divertente, serena di questo linguaggio.

Oggi gli strumenti sono tanti, sono a disposizione di tutti e utilizzabili fin da subito, ma il linguaggio di internet e dei video è talmente lontano da insegnanti e genitori, che loro non si interessano o, anche volendo, non riescono a stare al passo dei nativi digitali.

Di contro i nativi digitali non hanno gli elementi per comprenderlo, ma sono tecnologicamente veloci e utilizzano questi mezzi senza la necessaria consapevolezza. Tutto ciò sarebbe invece fondamentale nell’educazione dei giovani. 

Purtroppo non esistono corsi per insegnanti su come restituire consapevolezza ai giovani, in più gli adulti sono troppo lenti in questo percorso di apprendimento, per questo non sanno come comunicare in video con gli allievi.

L’Italia in questo processo è indietro: non credo sia demonizzando i mezzi di comunicazione che si arrivi a un dialogo sano con i giovani, ma credo sia vincente la valorizzazione dei punti di forza. Educare e formare anche nel mondo scolastico potrebbe essere la ricetta giusta per recuperare il ritardo.

 

 


Leila Cavalli terrà il corso "La regia cinematografica per la danza" a Ravenna a partire dal 27 novembre.


 

 

 

© Expression Dance Magazine - ottobre 2021

 

 

 

 

 

 

 

Dalla preparazione fisica alla performance di alto livello: come coltivare la fisicità del danzatore nel percorso di professionalizzazione

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Negli ultimi decenni il mondo della danza, in particolare quello occidentale, ha incontrato quello del fitness. Non possiamo girarci intorno, innegabile la centralità della preparazione fisica nel ballerino, una preparazione che non può certo esimersi dal rapporto con il fitness: ciò non deve essere letto come una blasfemia, ma semplicemente come l’evoluzione della disciplina e l’acquisizione di consapevolezza legata alla preparazione fisica del danzatore, nel suo percorso di raggiungimento della perfezione nel gesto artistico.

L’evoluzione di cui parliamo è senza dubbio naturale e fisiologica e riguarda anche le tipologie di coreografie messe in scena negli ultimi anni e decenni: più complesse e difficoltose, necessitano ogni giorno di più di una preparazione fisica basata su evidenze medico/scientifiche e sulla periodizzazione degli allenamenti.

La prospettiva sta cambiando, le posizioni dei protagonisti del mondo della danza, dagli artisti ai coreografi, alle scuole di danza, si stanno evolvendo anche grazie alle numerose ricerche. 

Fino a oggi parlare di preparazione fisica nella danza ha sempre spaventato e per questo venivano evitati discorsi legati alla forza e allo sviluppo muscolare: molti ballerini sono restii nel parlare di “forza” e di sviluppo muscolare, poiché temono di vedere i propri muscoli aumentare e risultare quindi non in linea con i dettami di determinate discipline, poiché i muscoli particolarmente sviluppati riducono la fluidità e la bellezza del movimento e del gesto. In realtà però anche gli allenamenti di forza sono risultati, a fronte di numerosi studi e ricerche, fondamentali nella tenuta fisica del ballerino.

Oggi la danza non può fare a meno della scienza medica e motoria nello sviluppo di programmi di allenamento idonei e basati sullo studio delle performance e delle capacità tecniche di esecuzione dei movimenti dei singoli danzatori, per arrivare a forme fisiche ottimali, ma soprattutto nella prevenzione di infortuni.

La danza, nella sua espressione artistica, sta rapidamente mutando. Le fondamenta su cui si basa da sempre, quali tecnica e arte, si stanno progressivamente unendo alla resistenza fisica e mentale: diventa sempre più importante per le scuole e le accademie comprendere e rinnovare i percorsi di preparazione fisica. Diventa fondamentale incoraggiare i progetti di ricerca in ambito medico/scientifico, in modo da garantire ai danzatori nuove modalità di allenamento, conducendoli a performance di alto livello.

L’allenamento nella danza si fonda sullo sviluppo del potenziale individuale attraverso esercizi specifici, personalizzati anche in base alle caratteristiche fisiche individuali e senza mai dimenticare le inclinazioni psichiche. Il fine ultimo è quello di eclissare le debolezze e migliorare la propria forza. 

Al danzatore sono richieste numerose capacità fisiche per sostenere le difficoltà tecniche presenti nei vari stili.

La performance di un ballerino deve poter essere completamente immersa in una dimensione artistica che non può lasciare trasparire lo sforzo che il corpo compie in quel preciso momento. La sua forza si concretizza attraverso la sua esplosività muscolare, ma la capacità di esprimere la forma artistica emancipata dallo sforzo fisico risiede soprattutto nell’abilità mentale di eseguire con naturalezza un particolare gesto o stile.

Questo significa che potenza, forza, resistenza, equilibrio, coordinazione, dinamismo, elevazione e flessibilità andranno coltivati, insieme alla condizione mentale del ballerino, con particolare attenzione alla gestione dello stress e con un programma dettagliato in grado di integrare la lezione di danza (spesso concepita senza prestare la giusta attenzione alla preparazione atletica).

IDA da anni mette a disposizione di chi pratica danza, ma soprattutto di chi insegna danza, tutte le conoscenze derivanti dalla multidisciplinarietà delle materie che hanno come oggetto il benessere del corpo, il suo potenziamento fisico.

 

Il percorso Dance Trainer, ideato in base alle migliori conoscenze nel campo del fitness e delle scienze motorie, si articola in tre seminari ognuno pensato per raggiungere obiettivi specifici:

 

DANCE CONDITIONING

Il seminario si propone di indagare e analizzare le forme di preparazione fisica più adatte alla danza, legando meccanismi di forza e resistenza con l’acquisizione di metodologie scientifiche volte alla creazione di percorsi adatti ai propri allievi.

DANCE PROPS

Nei due giorni di seminario, si approfondiranno metodologie di allenamento legate all’utilizzo di props, piccoli attrezzi già molto utilizzati nel fitness e nel pilates, ma con una chiara e specifica utilità nella preparazione fisica della danza, essi infatti permettono di lavorare sul movimento di specifici muscoli, permettendo di migliorare le sinergie e il coordinamento, fino a giungere alla prevenzione degli infortuni.

Elastici, gym ball, soft ball, roll, pesetti, sedia saranno i protagonisti del seminario.

DANCE FUNCTIONAL TRAINING 

Il seminario propone l’analisi e lo studio di programmi di ginnastica funzionale applicati alla danza: senza perdere di vista le necessità fisiche del danzatore, in questo percorso si pone particolare attenzione agli analizzatori (cinetico, statico dinamico, visivo, uditivo, tattile). Il percorso si sviluppa partendo da esercizi di mobilità articolare, fino ad arrivare al potenziamento muscolare.

 

 

 

 

 

© Expression Dance Magazine - ottobre 2021

 

 

 

Roberta Fontana: "L'insegnamento mi ha reso libera"

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Roberta Fontana studia danza a partire dai 6 anni al Balletto di Roma sognando una vita da danzatrice classica, poi un’insegnante che riconosce in lei tanta passione le consiglia di provare il modern: secondo lei il fatto di non avere un collo del piede particolarmente sviluppato non l’avrebbe fatta emergere così come si sarebbe meritata. Al momento è stato un brutto colpo da digerire, un colpo che infrangeva i suoi sogni di bambina, nella realtà quel cambiamento ha significato per Roberta Fontana una carriera che, a partire dagli anni ’90, l’ha vista come danzatrice modern in numerose produzioni televisive e teatrali, chiamata a far parte di numerose compagnie di danza.

Roberta, presente tra i docenti del tradizionale Campus Dance Summer School che IDA organizza ogni estate, ci ha raccontato perché per lei insegnare è stato un modo per sentirsi più libera. 

“Nasco dalla danza classica ma a 17 anni la mia insegnante di allora mi ha fatto notare che non avevo il collo del piede adatto per diventare un’ottima ballerina di danza classica. Ho vissuto un momento non piacevole ma essere insegnanti è responsabilità. La mia insegnante lo ha fatto e mi ha indirizzato in un nuovo binario, quello della danza modern. Una brava insegnante lo può e lo deve fare con i giusti modi e i giusti termini. Avevo una grande passione e questa determinazione mi ha guidato seguendo il consiglio della mia insegnante”. 

Roberta Fontana ha capito grazie a quella indicazione che aveva preso la strada giusta e ci confessa in che modo ha scoperto la sua vocazione di insegnante: “ho danzato in diversi angoli del mondo e in diverse situazioni ma ad un tratto ho sentito il forte bisogno di creare e di liberare quello che desideravo. Ho iniziato ad insegnare nelle pause da danzatrice ma poi ho sempre di più riscontrato che l’insegnamento per me era uno spazio di libertà.” Ci racconta che quello spazio libero non se l’è mai sentito dentro come danzatrice perchè c’è sempre stato un coreografo che decideva per lei e questa libertà le è piaciuta talmente tanto che nella sua vita professionale la coreografia e l’insegnamento hanno avuto uno spazio sempre più ampio.

Per lei, come si legge nella sua nota biografica, “l’interpretazione musicale costituisce l’elemento essenziale del suo stile che esalta la dinamica, la tecnica e l’espressione del ballerino”. Chiedo a Roberta di spiegarmi meglio cosa intenda e mi risponde con grande franchezza: “ascolto le musiche e poi nascono le mie coreografie, le ho dentro il mio corpo e tutto esce “giusto”, in modo del tutto naturale. Non devo creare, è tutto lì… esce tutto da solo. Parto sempre dalla musica e per questo faccio grandi ricerche in tal senso; ma una volta trovata la musica giusta il mio senso naturale del ritmo mi porta alla coreografia. Non faccio nessuno sforzo… è già pronta per essere ballata. Nell’insegnamento ho trovato la libertà di creare, mettere in pratica la mia ispirazione. Ho un insegnamento carnale, un modo diretto, spiegando cose che ho provato sulla mia pelle… forza e energia sono quello che servono ai miei allievi.”

Viaggia e ha viaggiato tantissimo per lavoro incontrando sulla sua strada tantissimi studenti, ci ha raccontato la sua esperienza: “in Russia certamente ho avuto studenti più regolati e “rigidi”, a Madrid gli allievi hanno un’energia fantastica, a Tokio e in Brasile sono invece dei stakanovisti. Lavorare con allievi francesi poi dà molta soddisfazione perché il livello è molto alto: in Francia infatti non si smette mai di studiare e di formarsi, in Italia invece molti si bloccano nella formazione. Lavoro molto in Francia e mi trovo molto bene con i ballerini francesi, direttori e colleghi perché c’è certamente un rispetto più alto per l’arte e per la formazione tersicorea e ci sono anche più occasioni essendo organizzati più eventi e più festival di danza e di teatro e per questo chi studia riesce sempre a trovare un lavoro. Anche per questo motivo consiglio di non aver paura di vivere esperienze in altri paesi”.

Roberta ci confessa poi: “come insegnante cerco sempre di lasciare qualcosa e questo mi dà grande soddisfazione. Sono me stessa e do tutta me stessa ai miei ragazzi… vedo il mio ruolo di insegnante come uno scambio energetico così importante che dopo che ho dato una lezione di danza mi sento come se avessi fatto una doccia: mi sento meglio, più carica”. 

Le chiediamo poi cosa si sente di consigliare ai propri allievi in generale: “non smettete mai di essere affamati di studio, nessuno ottiene tutto e subito, anche se spesso te lo fanno credere, ma questo non è certamente il miglior approccio per affrontare questa arte. Danzare è un lavoro così pieno di sacrifici che se non hai la passione giusta non ce la fai. Lo so, sono una privilegiata, il mio è un lavoro e una passione, mi pagano per fare quello che amo. Per questo motivo sprono i miei allievi ad ottenere quello che vogliono e cerco di essere sempre sincera come la mia insegnante lo fu con me a suo tempo”.

L’ho intuito profondamente anche osservandola mentre spiegava, correggendo con delicatezza e rigore, cercando di far passare oltre alla tecnica, l’energia che occorre per farla diventare più giusta e adatta ad ogni allievo che interpreta le sue coreografie… Sono certa che dopo una lezione di Roberta Fontana puoi ritrovarti uno studente “rinnovato” e “con un sapere di cui fare tesoro” per il proprio futuro, qualunque esso sia.

 

 

 

 

 

© Expression Dance Magazine - ottobre 2021

 

 

 

 

Danza e società: dal singolo alla comunità

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Torniamo spesso sulla riflessione legata al corpo in quanto tale e al corpo in relazione col mondo circostante. 

Veicolo di emozioni, ha in sé linguaggi non sempre codificabili, se non grazie a un’attenta e rigorosa lettura e conoscenza del suo mondo.

Partendo da questo presupposto, ognuno di noi dovrebbe riflettere sul proprio approccio col mondo, sulla percezione di sé in relazione con gli altri corpi e sulle modalità attraverso le quali scegliamo di interagire sin da piccoli: i bambini sono infatti portati a muoversi nel mondo con naturalezza e spesso la danza diventa il loro linguaggio, istintivo e primordiale. Non possiamo di certo negare la complessità di questa forma di interazione sociale, poiché richiede la capacità di integrare movimento, musica, ritmo e spazio, coordinando il proprio movimento coerentemente rispetto agli stimoli esterni. 

Numerosi studi hanno messo in evidenza la predisposizione del neonato, già dai primi mesi di vita, a reagire agli stimoli musicali attraverso movimenti istintivi; una reazione talvolta più evidente rispetto a quella conseguente al linguaggio verbale, utilizzato come canale privilegiato della comunicazione umana.

Tali studi hanno inoltre evidenziato come la danza, all’interno di un certo contesto sociale, abbia o possa avere riscontri educativi non indifferenti: si pensi che è stato più volte constatato quanto i movimenti simili portano a coesione sociale e solidarietà.

Come ci dice chiaramente Cristina Natali (docente di Antropologia presso l’Università di Bologna) attraverso le sue ricerche, la danza, se analizzata anche da punti di vista differenti e da culture differenti, trova nella traduzione stessa del termine curiosi risvolti: le connotazioni sono tante e varie, da gioco, divertimento o piacere, si giunge anche a significati legati alle rappresentazioni e riproduzioni di scene di vita, evocative, richiamanti sempre la socialità, la comunità, la storia comune di una cultura.

Cristina Natali ci parla di danza come un’arte “plastica”. 

Le danze di tutto il mondo, cambiano, si trasformano e incorporano i mutamenti storici, la danza è un’arte del movimento, ma soprattutto, in movimento.

La danza è un’arte viva, capace di incorporare i cambiamenti. 

Si fa però sempre più fatica a rendersi conto che anche le danze di altre culture mutano col passare del tempo: questa comprensione è resa possibile grazie all’antropologia della danza, una disciplina nata negli anni’60 e grazie alla quale si comincia a pensare alla danza, annullando la dicotomia “danza occidentale” e “danza altra”, dando a tutte uguale dignità.

Siamo consapevoli della visione etnocentrica della danza, di interpretazioni che pongono in primo piano e come massima espressione di questa arte le rappresentazioni provenienti dai repertori occidentali.

Tendiamo a intendere la danza come arte del movimento, caratterizzata da espressioni più o meno perfette; ma cambiando radicalmente punto di vista e concedendoci la possibilità di osservarla dimenticando i modelli socialmente riconosciuti, ci renderemo conto che la danza è spazio e tempo, scandisce il ritmo e le fasi della vita. 

La danza mette in gioco diversi aspetti della vita sociale dell’individuo, poiché può essere riconosciuta nella sua natura artistica, ma fonda le radici nella capacità della persona di rispondere a uno stimolo musicale e sociale, una capacità quest’ultima legata alle capacità innate della persona.

L’antropologia della danza, indagando la danza in un intreccio dialogico tra culture, dà un’interpretazione nuova anche all’intreccio tra i corpi tipici di questa arte: il gioco di ruoli, le analisi delle relazioni tra i corpi (tra uomo e donna) lo studio del lavoro di artisti e coreografi, del loro background sociale, da cui derivano vere e proprie letture e studi, ci dà modo di comprendere anche il mondo che nella danza va a mostrarsi. 

Dall’apparenza del movimento, si giunge alla profondità del pensiero, che dà vita a quel movimento, rivelando il contesto socio-culturale all’interno di questa espressione artistica. Analizzando le danze, possiamo infatti notare le differenze socio-culturali, osservando il pubblico (la sua posizione rispetto alla scena, i tempi della reazione), osservando la tipologia di spettacolo, la storia del racconto e la sua durata, fino ad arrivare all’aspetto fisico del danzatore, il quale parla della cultura in maniera diretta. Le differenze sono tante e, ogni singola differenza, andrebbe indagata per comprendere cultura e società.

Studiare la danza per comprendere la sua funzione sociale è un passo sicuramente complesso, ma potrebbe dare effetti nuovi e sorprendenti anche a insegnanti e coreografi che, in questo delicato momento storico, vogliono dare una nuova lettura della propria professionalità e del proprio processo creativo a giovani danzatori, in un percorso motivazionale diverso rispetto ai classici metodi accademici e scolastici.

Ne abbiamo parlato con Sara Sguotti, danzatrice e coreografa, al momento impegnata con il progetto “HOP” di Dance Well.

Sara, parlaci un po’ del tuo percorso, quali sono stati i passi più importanti nell’acquisizione di consapevolezza relativa alla funzione della danza?

Io nasco come danzatrice, ho seguito un percorso classico, la scuola di danza e la scuola privata, poi ho sentito l’esigenza di ricercare nel corpo, nel movimento e nella funzione reale che movimento, corpo, danza e arte in generale hanno nel contesto sociale: comprendere il rapporto tra le varie dimensioni, un interscambio che genera situazioni, non sempre di facile interpretazione, ma legate a una dimensione più profonda del legame tra corpi.

Nel mio lavoro di coreografa e artista non posso esimermi dalla ricerca, per me ogni momento della creazione artistica e della condivisione con il pubblico è integrante di questa ricerca, per questo cerco di uscire dai classici dettami culturalmente definiti: punto all’annullamento della famosa quarta parete e cerco continuamente un rapporto, un dialogo con il pubblico, cercando di creare empatia con gli spettatori.

Un paio di anni fa è arrivata la proposta di lavorare con Dance Well, un progetto nato a Bassano del Grappa di ricerca nel movimento per i malati di Parkinson, ma non solo. L’obiettivo è creare una comunità, con l’intento di promuovere la danza in diversi contesti culturali-artistici cittadini. 

Per me la proposta è sembrata da subito interessante: metto sempre al primo posto il processo creativo del corpo pensante in comunicazione con gli altri corpi, in una sorta di condivisione continua e reciproca di spazi ed emozioni. 

Lo scopo di questo progetto è stato proprio quello di imparare a convivere e condividere nel movimento, creando così una comunità di persone che ricercano lo scambio.

Ho conosciuto 22 persone, eterogenee dal punto di vista del background sociale e di età, ognuno con la propria storia, ma accomunate dalla voglia di mettersi in gioco e sentirsi parte di qualcosa.

Acquisendo consapevolezza sul senso di comunità, in questo progetto ho davvero percepito il valore profondo del gesto comune, che nasce anche dalla sua funzione educativa.

Mi colpisce molto questa tua considerazione della danza. Ora che la pandemia ha causato una sorta di allontanamento tra le persone, tu ci parli di comunità e senso di appartenenza sviluppati attraverso la danza. Pensi si possa ripartire da questo lavoro per ricondurre i giovani alla danza?

L’evoluzione del progetto mi ha effettivamente donato tanto e aiutato nell’apprendere e comprendere la gestione delle dinamiche di gruppo: partendo dall’idea di corpo unico, si procede nella costruzione di una esperienza comune, caratterizzata dal senso di appartenenza e dalla capacità di sviluppare una sempre maggior sensibilità nei confronti dell’altro. 

Questo lavoro sulla comunità è un lavoro che cerca di far emergere le varie modalità di accettazione e ciò potrebbe essere fondamentale in questo momento storico, soprattutto tra i giovani. L’accettazione della diversità nella costruzione della comunità è un passaggio fondamentale anche all’interno della scuola di danza, per questo non ci si può esimere da questi insegnamenti.

Lo troverei un lavoro molto utile anche nelle formazioni della danza, poichè grazie alla comunità si può trovare il modo di darsi forza a vicenda, una ragione per andare avanti.

Hai citato il lavoro delle scuole di danza e la grande possibilità che queste hanno ora: dare voce ai giovani e alle loro necessità più profonde, non necessariamente legate alla tecnica e alla forma, ma anche alla motivazione. 

In questi anni di ricerca ho capito come l’idea di comunità debba essere anche alla base delle singole classi, per richiamare il rispetto: è necessario un esame di coscienza sul valore dell’essere umano come singolo e come comunità.

Sarebbe utile e molto educativo sviluppare progetti di incontro su larga scala, dal singolo alla comunità, allargando i punti di vista, i contatti tra comunità e regioni.

In questo periodo storico emerso come la scuola di danza sia maggiormente legata all’idea di sport.

Pochi si allontanano dall’idea di insegnamento canonico, un’idea diversa rispetto all’apprendimento della mera tecnica, che guarda maggiormente al gruppo, all’identità comune, culturale e sociale. Quest’idea non si lega al linguaggio, né alla disciplina, ma cerca di portare il valore della comunità all’interno del luogo di formazione. Ciò diventa necessario per ampliare la propria conoscenza.

Vivi la danza come un rituale più che come una forma di espressione meramente artistica, all’interno del quale cerchi sempre di instaurare un rapporto con il pubblico, cosa ti ha condotto qui? 

Credo nel rituale inteso come momento di cambiamento e passaggio. Viviamo in un mondo, dove le influenze sono molteplici, per questo non riesco a pensare a un momento di condivisione senza relazione reale tra danzatore e spettatore.

Dal corpo pensante arriva la possibilità comunicativa, sta nella persona che crea il movimento cercare un legame con la comunità (allievo o spettatore), in modo da generare contenuti di diverse tipologie e caratterizzanti diversi piani della creazione artistica (partendo dalla formazione, fino a giungere a spettacoli e pratiche artistiche di condivisione).

La danza per me è incontro, nella separazione non c’è crescita, non c’è sviluppo.

Per questo dovrebbe essere necessario rivedere anche le modalità di dialogo tra le scuole di danza: è impossibile evolvere se tra le singole scuole vi è un muro. Solo i momenti di coesione e dialogo possono creare le condizioni per uno scambio di possibilità e per un cambio di punti di vista nella scala dei valori.

 

 

 

 

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Il Sistema di Analisi del Movimento Laban/Bartenieff applicato alla composizione coreografica

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La creazione coreografica sicuramente si appoggia all’estro del coreografo, la sua fantasia e la sua capacità di avere una visione: l’intuizione gioca una parte importante, ma anche la parte tecnica di costruzione e ricerca coreografica deve essere sviluppata a sostegno della parte creativa. Quando si comincia a sviluppare un’idea coreografica, la ricerca degli elementi che fanno parte del tema coreografico è una parte essenziale che ci permette di avere una serie di opzioni da esplorare e poi scegliere.

Ma come possiamo creare un programma di ricerca, una metodologia, uno schema che ci aiuti a sviluppare la nostra coreografia? Il Sistema Laban/Bartenieff ci viene in aiuto.

Il Sistema di Analisi del Movimento Laban/Bartenieff, è un sistema di studio del movimento che integra il lavoro pratico teorico di Rudolf Laban con quello di Irmgard Bartenieff.

Laban, un personaggio eclettico vissuto a cavallo tra l’800 e il ‘900, crea un sistema per analizzare, decodificare, osservare il movimento in tutti i suoi aspetti: egli sviluppa un metodo di scrittura del movimento, sottolineando l’importanza del movimento come elemento trasversale e onnipresente nella vita dell’uomo e il suo potenziale espressivo e comunicativo.  Il suo lavoro viene ampliato dalla sua allieva Irmgard Bartenieff che prosegue e arricchisce il sistema diffondendolo negli Stati Uniti dove è oggi largamente conosciuto e diffuso.

La bellezza di questo sistema non è soltanto quella di ampliare la consapevolezza e la gamma espressiva del corpo in movimento, ma anche quella di aver creato un linguaggio neutro, applicabile a tutti i settori che richiedono una conoscenza specifica sul movimento. In relazione alla danza, lo si può applicare alle varie tecniche, proprio per la sua neutralità e per il linguaggio di decodificazione del movimento a 360 gradi.

Le quattro categorie del Sistema, sotto cui studiare aspetti specifici del movimento, sono Corpo, Spazio, Qualità (Effort), Forma. Ognuna di queste categorie racchiude concetti e principi che ci permettono di andare a fondo nello studio del movimento e mettono in evidenza elementi e aspetti fondamentali che compongono i nostri movimenti e che li rendono particolari:

- Nella categoria Corpo troviamo elementi che ci dicono come il corpo si organizza per eseguire i movimenti, dai modelli di Organizzazione del corpo, alle parti del corpo che iniziano il movimento, a come il movimento scorre nel corpo;

- La Categoria Spazio ha a che vedere con direzioni, distanze, livelli e uso dello spazio; 

- La Categoria Qualità (Effort) ci informa sul nostro atteggiamento riguardo ai fattori flusso, peso, spazio, tempo e la loro qualità dinamica;

- La Forma invece ci dice come il corpo cambia forma in relazione alla realizzazione di un movimento, un bisogno e per ciò che riguarda il rapporto col mondo esterno.

Essendo un sistema che va ad arricchire la nostra conoscenza del corpo in movimento, nell’aspetto funzionale ed espressivo/comunicativo, diventa anche uno strumento creativo al servizio della creazione coreografica.

Sia Laban che Bartenieff lavoravano nel campo della danza, nella coreografia e entrambi danzavano, Bartenieff è diventata poi anche fisioterapista e danza terapeuta, quindi la creazione coreografica attinge a piene mani dal Sistema stesso.

Gli elementi che compongono i nostri movimenti ci offrono una base per la ricerca coreografica preparando un percorso coerente con il tema coreografico.

La composizione coreografica è anche molto personale, lo stesso tema affidato a più coreografi viene sviluppato diversamente, quindi la prima cosa da capire è il nostro rapporto personale con il tema della coreografia, per poi partire per la scelta di elementi che sono coerenti con il tema da sviluppare e con la nostra visione.

A seconda quindi del soggetto coreografico, vado a cercare all’interno del Sistema ciò che per me ha una connessione con il lavoro che intendo sviluppare, quindi farò una serie di esplorazioni e in seguito proverò a creare un percorso in cui mettere in ordine queste esplorazioni fatte.

Che cosa anima un corpo a muoversi in un certo modo per comunicare ed esprimere uno specifico tema coreografico? Studiando anche solo la base del Sistema Laban/Bartenieff e sperimentando con il proprio corpo cosa significa muoversi attraverso i suoi elementi, possiamo operare una scelta, una scrematura che ci permette di iniziare a lavorare mantenendo il tema coreografico in primo piano. Il Sistema Laban/Bartenieff viene in nostro aiuto, rivelandoci la molteplicità e la complessità del movimento umano, mette in evidenza le nostre preferenze e ci esorta a lavorare analizzando a fondo il tema da costruire e a procedere con le nostre sperimentazioni con onestà. Nel processo creativo ci si domanda sempre se la cosa che stiamo sperimentando è utile alla composizione coreografica.

Gli elementi basilari del Sistema possono diventare i nostri stimoli creativi, scegliendo tra essi quelli che rientrano tra i protagonisti e componenti del tema coreografico. Si parte sempre quindi dallo studio del Sistema almeno nella sua parte essenziale, per poi usare quello che abbiamo praticato per i nostri fini creativi.

L’esperienza fisica di ciò che si è studiato rende più facile la ricerca, ma non ci si limita solo a questo, dobbiamo anche essere in grado di combinare i vari elementi in modo che abbiano un senso e una progressione efficace.

L’integrazione di studio e ricerca diventa quindi il fulcro su cui poter allenare il nostro processo creativo, il movimento comunica e racconta attraverso l’originalità e questo avviene grazie ad un lavoro molto approfondito sul movimento e la sua natura.

L’obiettivo è quello che detta la ricerca degli elementi necessari, nel Sistema Laban/Bartenieff noi diciamo sempre che “l’intenzione organizza il movimento”, in questo caso organizza un piano di ricerca che passa attraverso le 4 Categorie di analisi nominate prima.

Oltre a quelle ci sono anche una serie di principi e temi che si sviluppano trasversalmente al Sistema e che portano anch’essi materiale di studio e di riflessione.

Il connettere forma, dinamica e significato, da forza a ciò che vogliamo esprimere e, attraverso l’analisi e la sintesi fornite dal Sistema, la motivazione prende forma e diventa coreografia. Impariamo a pensare col corpo: i movimenti diventano parole, concetti, sentimenti, astrazioni.

Il Sistema si è evoluto negli anni e continua a svilupparsi attraverso le persone che lo studiano e ne approfondiscono le applicazioni, ma intanto possiamo usufruire di ciò che ci offre e la sua ricchezza è al nostro servizio.

 

 

 

 

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Un nuovo percorso IDA per includere le basi della danza classica nelle classi di modern e contemporaneo

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Perché chi studia danza contemporanea dovrebbe praticare danza classica? E quale è il modo più corretto per inserire nozioni di balletto in un percorso che privilegia altre tecniche?

Ne abbiamo parlato con la docente Laura Nardi, diplomata all’Accademia Nazionale di Roma, da sempre versatile danzatrice e, come coreografa di danza contemporanea, vincitrice di numerosi riconoscimenti in numerosi festival e concorsi di rilievo nazionale.

Laura, cosa rispondi a chi pensa che la tecnica classica sia addirittura d’ostacolo a chi ricerca un movimento naturale e non vincolato alla forma?

Direi che non c’è conflitto, anzi sono certamente di più i vantaggi per chi ha la fortuna di inserire nel suo programma di studio elementi di base del balletto nonostante il suo obiettivo non sia quello di fare il danzatore classico.

Per un ragazzo/a che aspiri al professionismo, prendere parte ad una classe di danza classica è un po’ come prendere le vitamine: la danza classica aiuta a migliorare la prestazione fisica, la coordinazione, la consapevolezza dello spazio e permette di lavorare alla sbarra su forza ed elasticità in maniera simmetrica su ambo i lati del corpo.

Come può un insegnante di contemporaneo aiutare i propri studenti ad impadronirsi della tecnica di base della danza classica?

Spesso si rinuncia ad introdurre un training di balletto in percorsi formativi di modern o contemporaneo per paura di spaventare gli allievi che scelgono questa disciplina dopo aver avuto approcci traumatici con la danza classica oppure con allievi che nutrono pregiudizi di base verso una disciplina percepita come troppo rigida e dogmatica. Poi, avendo poche classi a settimana a disposizione, i docenti rinunciano spesso ad affrontare l’argomento per mancanza di tempo.

Il tutto credo dipenda però dalla modalità di approccio alla materia che va introdotta nella consapevolezza da parte del Maestro di dover costruire classi o esercizi di balletto per il contemporaneo, prevedendo una programmazione delle sequenze specificatamente formulate per chi necessita di muovere il corpo nella fluidità, senza insistere ad esempio sulla ricerca dell’en dehors come necessità prioritaria, obiettivo imprescindibile invece per chi segue una formazione accademica.

Quali consigli si possono dare ad un insegnante di modern o di contemporaneo per presentare nelle proprie classi anche gli elementi base della danza classica?

Credo sia importante prima di tutto valutare il materiale umano che si ha a disposizione per formulare una pianificazione del programma adeguata ai bisogni del gruppo e cercare freschezza e versatilità nel trasferire le nozioni. Per questo con Ida abbiamo pensato ad un corso finalizzato per stare accanto a tutti quei docenti che desiderano integrare le loro lezioni di modern con le basi essenziali della tecnica accademica: vorremmo si facesse largo l’idea che il corpo è uno e più esperienze sane e corrette gli facciamo fare più contribuiremo a renderlo sapiente.

Come si svolgerà il percorso proposto?

Dopo aver analizzato i concetti fondamentali della tecnica classica si parlerà di come e quando introdurli, si analizzerà poi come la danza classica possa supportare e coadiuvare, le caratteristiche primarie della danza modern e contemporanea: musicalità, uso dello spazio, delle direzioni e dinamica.

Saranno proposte anche diverse parti pratiche in modo che gli insegnanti partecipanti siano stimolati a sperimentare e a provare su di sé: ci tengo molto ad instaurare un clima aperto con i docenti perché ogni tanto deve poter essere divertente tornare ad essere allievi ed apprendere senza nessun giudizio… credo infatti che solamente in questa modalità aperta e disponibile di scambio i docenti possano tornare nelle proprie classi e nella propria routine avendo tratto i migliori benefici dal lavoro svolto assieme.

 


Laura Nardi terrà il corso Ballet Inside Modern Class a Ravenna a partire dal 27 novembre 2021.


 

 

 

 

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In che modo gli insegnanti di danza possono aiutare i propri allievi ad ascoltarsi profondamente?

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La più grande rivoluzione della nostra generazione è la scoperta che gli esseri umani, cambiando gli atteggiamenti interiori delle loro menti, possono modificare l’aspetto esteriore della loro vita”  William James

Se trasliamo questa considerazione nell’ ambito dell’insegnamento della danza è evidente quanto i fattori psicologici non influiscano solo sulle prestazioni dei nostri allievi ma anche sul processo di apprendimento.

Facendo luce su ciò che può influenzare il benessere psichico degli allievi durante la lezione di danza e diventando consapevoli dei “demoni” che possono affacciarsi nel praticare questa nobile arte, possiamo diventare maestri sapienti, capaci di motivare nel modo giusto i nostri studenti, rafforzandone le abilità interiori.

Prima di agire sui nostri allievi, credo sia importante lavorare su noi stessi e prendere consapevolezza del modo in cui pratichiamo l’insegnamento per questo ho voluto approfondire l’argomento con la Dott.ssa Francesca De Stefani, Psicoterapeuta specializzata in Psicoterapia Biosistemica ed esperta Psicologa in ambito sia sportivo che coreutico.

Dott. ssa De Stefani cosa intende quando parla di “demoni” della danza?

 una definizione un po’ forte ma in grado di esprimere bene i disagi che un insegnamento non adeguato possa creare in bambini ed adolescenti come, per fare un esempio, l’eccessivo perfezionismo che viene stimolato e coltivato dalla danza.

Il profilo caratteriale migliore di un danzatore è sicuramente quello di una persona altamente motivata, responsabile e autodisciplinata; tuttavia se si esasperano questi aspetti si rischia di sconfinare e diventare ipercritici, continuamente accompagnati da pensieri negativi e dicotomici.

Secondo lei quindi quali strumenti può mettere in campo l’insegnante di danza per contrastare la tendenza degli allievi a diventare ossessionati dalla perfezione?

In questo senso il Maestro di danza può davvero fare la differenza fornendo ad esempio feedback chiari e costruttivi.

La prima regola per avere allievi fiduciosi nelle proprie capacità è far sì che stabiliscano una sana competizione con i propri limiti… cerchiamo l’eccellenza e non la perfezione!

In che modo il suo lavoro può essere importante per gli insegnanti di danza?

Credo che preparare gli insegnanti di danza trasmettendo loro maggiore coscienza sugli aspetti psicologici che determinano o meno un apprendimento di successo possa prevenire tanti disagi e/o patologie che una volta manifestati possono essere trattati esclusivamente dal punto di vista clinico.

Purtroppo sono ancora molti gli episodi di cronaca che riguardano abusi fisici e mentali a danno di giovani aspiranti ballerini in prestigiose accademie di balletto: questo è un chiaro segnale che non si sia fatto ancora abbastanza per emanciparsi da modelli di insegnamento errati che in molti casi purtroppo creano solchi profondi nell’emotività di chi è disposto a tutto per inseguire il proprio sogno.

Nelle esperienze più distruttive poi, l’allievo per gestire le richieste assurde del docente, diventa ipercritico e autodistruttivo fino ad arrivare all’anoressia come strumento di controllo.

Per questo ringrazio l’opportunità che mi ha dato IDA nel sensibilizzare i maestri di danza e di conseguenza la possibilità di intervenire anticipatamente nella formazione di bambini ed adolescenti, prevenendo i disturbi che spesso mi trovo a curare in studio.

Viviamo nell’era dell’immagine perfetta e del corpo come misura del valore sociale. I ragazzi che praticano danza sono immersi nei social media, nei quali vedono corpi di danzatori perfetti e prive di difetti fisici. Come viene influenzata secondo lei la percezione di sé stessi?

Il corpo è il primo elemento con cui si entra in contatto con gli altri ed è un fattore molto importante per lo sviluppo della definizione del sé. Ci si costruisce un’idea del proprio corpo sia con l’esperienza diretta sia attraverso il confronto con gli altri e le opinioni delle persone per noi significative (genitori, amici, insegnanti).

Gli adolescenti, in particolare, sono giudici severi ed implacabili sia con loro stessi che con gli altri e cercano continuamente conferme. Queste premesse mixate allo sguardo sempre rivolto ad immagini perfette crea il rischio di perdere il contatto con la realtà.

Per questo credo sia importante insegnare ai ragazzi a fare un uso consapevole dei social media, spiegando loro che quello che vedono è spesso ritoccato ad arte e che la verità di una performance è molto più complessa.

Non dimentichiamo che la danza è racconto e prevede personalità, intelligenza, valori, cultura e per questo è importante che gli insegnanti di danza riportino l’attenzione alla peculiarità di ogni individuo, ad una bellezza non imposta ma veicolata dalla scoperta di sé.

La vera ricchezza pedagogica della danza sta nell’aiutare le persone che la praticano ad ascoltarsi profondamente interpretando ciò che rimane nascosto alla vista ma è sensibile all’anima.

 

 

 

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Rivoluzioni ed evoluzioni: le sfide della danza

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La danza ha sempre parlato a determinate categorie di persone.

Facendo poi riferimento al contesto occidentale, tali categorie hanno subito, nella maggior parte dei casi, una dura selezione: da sempre vista come un’arte per pochi, adatta a determinati fisici, costruiti in ogni dettaglio, sta attraversando negli ultimi decenni piccole rivoluzioni quotidiane, legate principalmente alla necessità di rendere quest’arte, un’arte inclusiva, non legata a dogmi né a preconcetti di tipo classista e razziale. Anche in questo passaggio possiamo leggere l’importanza acquisita dalle arti e dagli sport nell’evoluzione socio-culturale dei diversi contesti: la funzione sociale della danza va a ridisegnarsi in un mondo alla ricerca costante di nuovi equilibri, dove ogni tentativo di eliminare i confini, sta portando i suoi frutti anche in discipline fino a oggi caratterizzate da ferrei dettami, confini mai scritti, ma da sempre percepiti.

Ci sono persone, in questo senso, che per raggiungere il proprio sogno hanno deciso di sfidare questi dettami, superare le barriere poste da preconcetti, non solo infondati, ma soprattutto conseguenza di relazioni di potere e politiche sociali distorte.

La storia ha senza dubbio influenzato, e non poco, lo sviluppo di questo movimento, relegando certe categorie a determinati stili, “ghettizzando” certi corpi.

Oggi anche la danza, nell’acquisizione di consapevolezza legata al proprio ruolo nel contesto sociale, cerca di dar voce al cambiamento, grazie a personalità eccezionali e carismatiche come Paige Fraser.

Paige è una ballerina professionista originaria degli Stati Uniti ed è stata docente per IDA allo stage Expression Dreaming America. Con lei ci siamo confrontati su alcuni temi legati proprio alle sfide nella danza: dalla scoliosi alle divisioni etniche.

Paige, oggi ballerina di successo per compagnie e musical, balla da che ne ha memoria! Decisissima sin dagli 8 anni a diventare ballerina professionista, a 13 anni le viene diagnosticata una forma di scoliosi, con una acuta curvatura della colonna. Le prime parole del medico alla lettura della diagnosi furono traumatiche per Paige, poiché si parlò subito di intervento alla spina dorsale, ma ciò che sembrava un incubo si trasformo nella sua più grande sfida e motivazione nel raggiungimento del suo sogno.

La ricerca di trattamenti alternativi l’hanno condotta a indossare un busto correttivo durante la scuola superiore, affidandosi allo stesso tempo a trattamenti chiropratici: tutto ciò ha dato i suoi frutti, dandole la possibilità di intraprendere una carriera nella danza come professionista senza far ricorso a interventi invasivi.

Dalla scoliosi non si guarisce, plasma il corpo e sicuramente è una condizione con la quale è necessario imparare a dialogare e convivere: fondamentale per Paige è stato acquisire consapevolezza sulla sua unicità e sulle sue qualità, consapevolezza acquisita lavorando sul suo corpo, danzando.

La danza quindi può essere intransigente e pretendere perfezione, ma se si impara a cogliere l’essenza del movimento, acquisendola come naturale forma di espressione del proprio sé, in rapporto a tutti gli elementi che fan parte della danza (dalla musica, al coreografo e al proprio partner), allora si uscirà dai retaggi culturalmente dettati, comprendendo che è proprio la danza a offrire una doppia lettura della medesima storia.

Paige ha colto l’opportunità offerta dalla danza, comprendendo il grande tesoro nelle sue mani: la sfida della scoliosi nella danza le ha dato modo di confrontarsi costantemente col suo essere, dandole modo di conoscersi profondamente e abbracciare totalmente il proprio io, mente e corpo.

In questo percorso Paige ha inoltre deciso di dare vita a una fondazione, per camminare al fianco di artisti un po’ più svantaggiati, sia per condizioni fisiche che per condizioni economiche: la fondazione raccoglie infatti donazioni proprio per assistere coloro che non possono permettersi cure né tantomeno opportunità.

Con la professionista ci siamo confrontati sulla reale funzione della danza nella nostra società e ci spiega come anche il suo essere nera abbia reso il suo percorso ancora più profondo e ricco di sfide: Paige si è da sempre battuta per diritti di uguaglianza nella danza, sostenendo a gran voce la rappresentanza di ballerine professioniste nere nel panorama artistico nazionale e internazionale.

Al giorno d’oggi essere donna ed essere una donna nera non è più motivo di vergogna, ma di orgoglio. La storia ci ha riportato racconti di sofferenza e difficoltà da parte di ballerini neri, le avversità sono state tante e la maggior parte delle volte purtroppo a causa del razzismo imperante.

Poi negli anni ’50, ’60 e ’70 i primi ballerini neri hanno spinto per un cambio di rotta epocale, garantendo la presenza di ballerini neri nelle compagnie, in tour e spettacoli.

Oggi non è più necessario modificare le proprie caratteristiche fisiche per incontrare le richieste del mondo dello spettacolo, ma quelle che a volte sono viste come differenze, oggi sono accolte come ricchezza.

Oggi anche i ballerini neri possono ballare senza paura di essere bullizzati.

Ricordiamo che anche piccole vittorie quotidiane ci hanno condotto alla situazione attuale, vittorie come la commercializzazione di scarpette di diversi toni,  in questo modo, chiunque potrà acquistare scarpette anche adatte alla propria carnagione (la scarpetta oggi non è solo rosa pallido). Ogni sfumatura è finalmente accolta con gratitudine.

Farsi portavoce oggi significa dar voce a chi non può, per un motivo o per un altro, affrontare una determinata sfida.

Paige ha danzato tanti anni per la Visceral di Chicago, passando da essere l’unica ballerina nera della compagnia, a essere chiamata per uno dei palchi più famosi d’America e del mondo: Broadway!

Nel 2019 arriva, infatti, la chiamata tanto agognata: interminabili cicli di selezione l’hanno portata a vestire i panni di un leone, di una zebra e addirittura di un albero in quel musical chiamato "Il Re Leone" nel tour nazionale.

 

 

 

 

 

 

 

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Claudio Coviello: un lavoro chiamato danza

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Come tutti i ballerini ha una vacanza di un mese e al massimo due settimane di riposo dagli allenamenti ma proprio durante uno di questi rari momenti di vacanza, Claudio Coviello ci ha riservato un po’ di tempo in una domenica infuocata dal caldo perché conosce molto bene la nostra rivista e la segue da tempo. 

Primo Ballerino della Scala, classe 1991, ci ha raccontato con assoluta modestia e grande stima e riconoscenza la storia di un bambino che dalla sua città nativa, Potenza, è arrivato sino all’Olimpo dei grandi della danza italiana.

Parlando si avverte subito indistintamente l’amore che coltiva per il suo mestiere di danzatore e la grande capacità che possiede nel descrivere il suo lavoro che, crede, sia solo uno dei tanti lavori possibili ma che, nel suo caso, ha fatto coincidere passione, dedizione e sacrificio con il lavoro.

Claudio possiamo ancora seguire su Rai Play la docu-serie Corpo di ballo di cui sei stato protagonista e che racconta la storia di alcuni danzatori del Teatro alla Scala nell’anno di pandemia e del vostro rientro sulle scene. Com’è stato l’impatto con il mezzo televisivo per te così abituato al linguaggio teatrale?

All’inizio mi sembrava davvero strano, avere tante persone in giro e poi noi danzatori siamo molto più abituati ad esprimerci con il corpo che non con le parole quindi proprio in quei mesi in cui ci stavamo nuovamente abituando a “rivivere la nostra vita”, il mezzo televisivo mi sembrava qualcosa di ancora più difficile. Poi invece chi lavorava dietro le quinte è stato davvero bravo a metterci a nostro agio quindi alla fine essere ripreso durante la mia quotidianità non mi ha più messo in crisi e a un certo punto tutti noi ci siamo persino dimenticati della presenza dello staff che è rimasto con noi per più di un mese.

Nel complesso sono davvero stato molto contento e orgoglioso di questa esperienza perché credo che ci sia bisogno di abbattere molti stereotipi sulla danza e parlare di danza al grande pubblico, specie con nuove modalità, non può che far bene al nostro mondo.

Di quali stereotipi parli in particolare?

In Italia, rispetto ad altri paesi, c’è ancora poca attenzione rispetto alla danza come lavoro e ancora troppi, a mio avviso, pensano che sia un capriccio andare a ballare e che danzare sia un hobby, solo una passione che non porta a vivere. A queste persone posso dire che io, come molti altri, vivo di danza e questo può essere qualcosa possibile anche se non facilmente realizzabile.

Certo, l’altro lato della medaglia è che il mercato del nostro lavoro è abbastanza duro e che in Italia abbiamo visto chiudere tanti Corpi di ballo in diversi Teatri lirici e molti sono costretti a cambiare paese per realizzarsi, ma io sono stato molto fortunato e sono riuscito a vivere di danza rimanendo nel mio Paese.

Ritornando al tuo lavoro, come ti ha cambiato questo momento di chiusura dei teatri?

Il primo mese dopo il lockdown non sapevamo bene cosa ci dovessimo aspettare, alla fine un mese lo vedi un po’ come una vacanza, un gioco… fai tutto quello che di solito non riesci a fare. 

Poi, non lo nascondo, mi è caduto un po’ il mondo addosso, sono rimasto male e ho fatto tanta fatica a riprendermi, non riuscivo ad accettare questo cambiamento, questa costrizione; anche se mi sono dovuto comunque sforzare per tenermi in allenamento prendendolo un po’ come un allenamento da periodo di riposo durante i giorni di vacanza: non ero contento ma lo dovevo fare… Allenarsi così per mesi è stato davvero molto strano: ho una casa piccola e non ci sono spazi in cui muoversi quindi tutto è stato meno dinamico e il mio corpo ne ha risentito davvero tanto. 

Quando sono rientrato in una vera sala, che di solito considero come una seconda casa, mi sono sentito stranamente spaesato: è stata davvero una sensazione straniante e dopo sei mesi da quel giorno in avanti ho avvertito comunque una grande fatica.

Ancora oggi non credo di essere nel pieno della mia forma fisica anche se in questi mesi io e alcuni miei colleghi siamo stati protagonisti di un Gala e siamo andati sul palcoscenico con assoli e pas de deux, in autunno invece interpreterò finalmente di nuovo un balletto intero, Don Chisciotte, con le coreografie di Rudolf Nureyev… non vedo l’ora!

Com’è nata la tua passione per la danza?

Mi ricordo che è nato tutto per gioco, in famiglia nessun era appassionato di teatro e tanto meno di danza, tuttora mi ricordo però il giorno in cui ho avuto la folgorazione: ero in vacanza al mare a 5 anni in un villaggio vacanze e lì ho capito che mi piaceva tantissimo ballare così chiesi ai miei genitori di iscrivermi ad una scuola di danza. Mi sono subito approcciato alla danza classica poi sono stato notato dall’allora primo ballerino dell’Opera di Roma, Salvatore Capozzi, e a 10 anni e mi sono trasferito a Roma per studiare alla scuola di danza dell’Opera. Sono andato a Roma con i miei nonni perché i miei genitori lavoravano: è stato un periodo di sacrifici per tutti.

All’ inizio l’ho presa come un gioco, poi a Roma ho subito notato un impatto diverso, un ambiente professionale ma stando con la famiglia e passando molto tempo con i miei compagni di corso ho vissuto in maniera molto serena quei momenti.

Credi dunque che sia importante la funzione delle scuole di danza private?

È fondamentale l’approccio di un bambino/a alla scuola di danza di “paese”, credo che sia importantissimo e decisivo come approccio nella disciplina della danza e serva ad indirizzare alla disciplina e alla passione oltre che a far conoscere la danza come tecnica. Io poi sono stato particolarmente fortunato sia a Potenza che a Roma ad avere incontrato maestri che hanno saputo cogliere le mie qualità di danzatore e mi hanno spronato a fare sempre qualcosa di più: credo sia decisivo per ogni artista avere più punti di riferimento di maestri durante la propria carriera per ampliare la propria conoscenza e personalità.

E a te piace insegnare danza?

Ho insegnato in alcune occasioni ma ho capito che non mi sento portatissimo nell’insegnamento e vado fiero nel riconoscere questa cosa perché per insegnare devi riuscire a trasmettere qualcosa di più della semplice tecnica; devi essere un esempio ed essere in grado di far crescere il talento a cui insegni dedicandogli tutta la passione possibile.

Quando hai capito invece che la danza poteva diventare la tua vita?

Solo nell’adolescenza ho capito veramente che danzare poteva diventare la mia professione, poi a 18 anni quando ho fatto l’audizione per entrare alla Scala ne ho avuto la controprova finale. Quando mi sono trovato a Milano, questa volta da solo senza alcun appoggio familiare, ho avuto l’impatto decisivo: ho capito che ero diventato un uomo e avevo trovato la mia strada.

Per far capire meglio come vivi il tuo lavoro nella quotidianità, ci puoi raccontare come si svolge la giornata tipo di un primo ballerino del Teatro alla Scala?

La mia giornata inizia tutte le mattine con la lezione delle 10 di un’ora e un quarto e prosegue con le prove fino alle 17.30. Lavoriamo 6 giorni su 7 e il settimo giorno è di riposo ma molto spesso diventa un ulteriore giorno di lavoro perché vado da solo ad allenarmi in teatro se ci sono spettacoli imminenti. 

Si, lavoro come tutti e arrivo a casa anche io ogni sera molto stanco e ho il corpo al collasso totale. 

Per il resto della giornata cerco di vivere normalmente: mi piace stare con gli amici, in compagnia. Ho molti amici danzatori e molte amicizie durature tra danzatori sulla mia pelle però credo sia molto utile avere anche amici al di fuori del nostro mondo. Tra danzatori abbiamo un senso di responsabilità in più se lo spettacolo va male, quindi avere un amico che non fa il tuo stesso mestiere ti aiuta a metabolizzare altrimenti si rischia di pensare che il tuo sia l’unico mondo possibile.

Quale pensi che sia un lato importante del tuo lavoro su cui dovrebbe prestare attenzione un giovane danzatore? 

La danza è una disciplina atletica ma dobbiamo essere anche degli attori senza parole. Chi viene a vedere uno spettacolo di danza deve capire e sentire solo attraverso i corpi e i nostri sguardi. Effettivamente un artista deve lavorare attraverso i gesti, il movimento, l’interpretazione e non tutti sono portati. È una cosa che si fa fatica ad imparare e credo che sia più che altro una predisposizione naturale e credo che in questo senso manchino nei percorsi professionali dei corsi di pantomina e di teatro che aiuterebbero a coltivare questo aspetto del nostro lavoro. 

E tu come hai fatto ad ottenere questo risultato?

Per essere danzatori occorre avere un’ottima tecnica ma bisogna sapere anche stare in scena e questo nessuno te lo insegna, ti perfezioni tu giorno per giorno. Mi immedesimo e penso che sia facile ma dietro ogni passaggio c’è un sacco di lavoro e di questo non c’è alcuna consapevolezza nel mondo, il pubblico non sa che c’è uno studio dietro e chi non conosce il nostro mestiere non lo sa perché bisogna saper rendere tutto facile. 

Ogni giorno siamo di fronte ad uno specchio e vediamo i difetti duplicati, non ci sentiamo per niente perfetti, ogni giorno riscontriamo qualcosa di nuovo che non va per questo ogni giorno è uno stimolo nuovo per migliorare. È necessario sempre crescere e migliorare, e ogni sfida, ogni racconto, ogni spettacolo è un buon modo per crescere e migliorare.

Sei molto seguito sui social, una passione o solo un modo per mantenere un contatto con il pubblico?

Non sono un fanatico di Instagram però mi sono avvicinato a questo social perché la fotografia è una delle mie passioni anche se mi ci dedico più che altro quando sono rilassato e quindi, purtroppo, in rare occasioni. Adesso principalmente uso questo social per il mio lavoro e pubblico soprattutto foto e video di spettacoli, molto meno per momenti che riguardano la mia vita privata.

Seguire l’esempio di Claudio Coviello è seguire l’esempio di un giovane che è riuscito a vivere “nella” e “della” sua passione, che è stato definito da Roberto Bolle “il talento più evidente che ho visto, una gemma pura da coltivare” e per il quale come tanti colleghi è stata un’ingiustizia, una considerazione di inferiorità del mondo dello spettacolo perché appeso ancora di più di altre categorie al filo dei decreti sulle riaperture che hanno fatto subire al suo lavoro una forte battuta d’arresto ...ma lo conferma e lo sottoscrive con orgoglio la danza è un lavoro come tutti gli altri e per questo ha bisogno di rispetto esattamente come tutti gli altri.

 

 

Foto di © Vito Lorusso

 

© Expression Dance Magazine - ottobre 2021

 

 

 

 

 

 

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