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La creatività come forma di espressione di sé

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Da sempre, ma in particolare negli ultimi due secoli, la necessità di dare una chiara lettura, sempre aggiornata, rispetto ai più proficui metodi di insegnamento, ha portato educatori, pedagoghi e numerosi ricercatori del settore a indagare il rapporto tra processo di apprendimento, modalità di erogazione dei contenuti e inclinazioni personali.

L’obiettivo è sempre uno, servirsi di strumenti nuovi e all’avanguardia per consentire allo studente, all’allievo, di potersi formare grazie a modalità sempre più efficaci.

L’approccio scientifico, il suo rigore, ha spesso fatto da padrone in questo contesto, ma, negli ultimi tempi, in una costante apertura rispetto all’importanza delle inclinazioni personali nel processo di apprendimento, si è dato più spazio anche ad altri approcci: rigore e creatività sono diventate così, parti contrapposte del medesimo processo e, al tempo stesso, complementari. 

Creatività e rigore: le due facce della medesima medaglia.

Da questa continua evoluzione e da questo rapporto viscerale tra rigidità e creatività, non possiamo assolutamente escludere gli approcci di insegnamento della danza: essi, infatti, hanno dovuto per primi scontrarsi con la necessità del rigore nell’apprendimento delle tecniche e la fondamentale importanza della creatività nel processo di produzione artistica.

Ancora oggi però, nei percorsi educativi, la creatività viene inserita tra quelle capacità definite “trasversali”, alla pari delle capacità comunicative e di lavoro in gruppo. Ciò si scontra con le esigenze del mondo attuale, che vede invece la creatività come essenziale, dove il costante mutare delle situazioni e la grande vivacità tecnologica, stanno rendendo necessaria, quasi vitale, la capacità del singolo di apprendere, ma soprattutto di riposizionarsi costantemente in maniera creativa all’interno del contesto di riferimento in ogni preciso momento.

Numerosi studi hanno dimostrato quanto sia motivante la possibilità di poter esprimere la propria creatività all’interno del processo di apprendimento: poter dar spazio alle proprie inclinazioni creative, alle proprie intuizioni, ha messo in luce anche quanto ciò sia proficuo nel percorso educativo, poiché si va a stimolare, contrariamente a quel che si pensa, aree del cervello maggiormente inclini al pensiero razionale, capacità di pensiero critico e capacità di connettere e unire discorsi, senza per forza seguire gli schemi predefiniti.

Tutto ciò acquisisce un eco profondo nel mondo delle discipline artistiche e in particolare nel mondo della danza: creare, improvvisare, costruire qualcosa di nuovo può significare, per un danzatore, soprattutto se in età evolutiva, raggiungere un traguardo stimolante, mettendo in gioco una parte di sé, senza la paura di sentirsi giudicato.

Il valore di questo passaggio è immenso, la creatività in questo può non solo aprire gli orizzonti e le menti, ma sottolinea implicitamente l’importanza del proprio essere, del proprio “io” all’interno del processo creativo: non si parla più di mera acquisizione di concetti e tecniche, ma l’insegnante mette in mano al danzatore degli strumenti, con i quali andare oltre ai preconcetti. In questa ottica, la figura dell’insegnante/formatore diventa cruciale nella formazione di una nuova generazione di danzatori, maggiormente legata al processo creativo in rapporto al contesto socio culturale di riferimento. Vediamo la nascita di una generazione di coreografi molto legati a questo, attivi protagonisti di rivoluzioni interne al mondo della danza, sempre più in stretta relazione con il contesto socio-culturale di riferimento.

Il processo creativo, in questo senso, non punta a reiterare e consolidare la formazione del danzatore passando dal repertorio, ma ha come obiettivo finale proprio quello di coinvolgerlo e condurlo, sin dai primi passi, in un processo di cui sarà parte integrante, all’interno del quale comunicherà il proprio vissuto e le proprie inclinazioni proprio attraverso la danza.

 

 

IDA mette in campo un nuovo progetto, La creatività è il cuore della danza  è infatti il nuovo percorso, caratterizzato da tre seminari tutti dedicati alla creatività, declinata in tre diversi aspetti:

Improvvisazione guidata nella lezione di modern/contemporaneo con Michael D'Adamio

Genomascenico® con Nicola Galli

Dance and colors con Mirko Boemi

Si tratta di un percorso totalmente nuovo nella formazione alla danza, che cerca di coinvolgere i giovani danzatori in percorsi alternativi, focalizzando l’attenzione non solo sui valori tecnici fondanti, ma anche sui vari linguaggi espressivi del corpo in danza. Si possono frequentare i singoli appuntamenti oppure tutto il percorso ottenendo il diploma di Danza creativa. 

 


Un ulteriore approfondimento sul tema:

La danza nei progetti scolastici con Silvia Ardigò

webinar in diretta live 15 marzo 2022

 

 

© Expression Dance Magazine - Dicembre 2021

 

 

 

 

 

Marco D’Agostin, quando il corpo si muove con la memoria

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Marco D’Agostin è un artista attivo nel campo della danza e della performance. Dopo essersi formato con maestri di fama internazionale come Yasmeen Godder, Nigel Charnock, Rosemary Butcher, Wendy Houstoun, Emio Greco, ha iniziato la propria carriera come interprete, danzando, tra gli altri, per Claudia Castellucci/Socìetas Raffaello Sanzio, Alessandro Sciarroni, Liz Santoro, Iris Erez, Tabea Martin e Sotterraneo.

Dal 2010 ad oggi ha sviluppato la propria ricerca coreografica come artista ospite di numerosi progetti internazionali e ha presentato i propri lavori in numerosi festival e teatri europei. Nel 2018 vince il Premio Ubu come Miglior Attore/Performer Under 35.

Di qualche giorno fa la notizia che il suo spettacolo Best regards è stato nominato tra i finalisti del Premio Ubu come Migliore spettacolo di danza del 2021. 

Ciao Marco ci rincorriamo da tempo e finalmente ci conosciamo… Stimo molto il tuo lavoro e mi piacerebbe capire meglio in che modo nascono i tuoi spettacoli: qual è il primo motore della tua ricerca?

L’origine è diversa per ogni lavoro. All’inizio ci sono sempre delle immagini, da non intendersi come riferimenti o fonti iconografici ma come serbatoi, atmosfere chiare; è come se ogni lavoro partisse da un kit di desideri, ispirazioni e direzioni con un cuore molto forte al centro. Come diceva Chiara Castellucci, cerco di “ammalarmi delle mie idee”… perché è quel cuore che mi ossessiona; penso solo a quello e lo faccio fino a che diventa altro. Quello che cambia da spettacolo a spettacolo è la natura di questi serbatoi che si differenziano.

Ad esempio nel mio ultimo spettacolo, Saga, volevo lavorare su un paesaggio desertico e su cinque essere umani che vi arrivavano, avevo in mente un certo scorrere del tempo, desideravo suggerire il formarsi e il disfarsi una famiglia. 

E nella danza, come espressione del corpo, cosa porti nella tua ricerca?

Nella danza porto l’energia ai suoi estremi; in qualche misura danzo sempre come fosse l’ultima volta, sono io, sono fatto così, almeno fino ad oggi… magari invecchiando qualcosa cambierà!

Non mi dispiacerebbe trovare un modo di lavorare su intensità diverse ma sicuramente mi porto dietro lo scotto di aver iniziato a danzare molto tardi perché non mi è stato permesso di farlo: sono cresciuto in un contesto socio-culturale che non rendeva facile l’accesso a questo tipo di esperienza. Il desiderio è andato negli anni intensificandosi, non potendo essere esaudito, e ne è dunque emersa una danza feroce e vorace. 

Quando hai capito invece che non volevi solo danzare ma che volevi creare qualcosa che ti appartenesse totalmente?

Fin dall’inizio ho voluto diventare autore, sin da subito ho saputo che volevo creare dei miei spettacoli. Ho iniziato nel 2010 con lo spettacolo Viola, di cui ero anche interprete.

E quando non sei in scena tu, come lavori con i tuoi interpreti?

Lavoro con la memoria, mi interessa quando il corpo è mosso dai ricordi: lo trovo più vibrante, più denso, più trasparente. Mi interessa lavorare su tre tipi di passato: la memoria della nostra vita, che è il nostro serbatoio più potente: in questo senso invito gli interpreti a sentirsi sempre circondati e mossi da una folla di fantasmi. Il passato a noi più vicino, cioè quello che si stratifica mano a mano che una performance o una pratica vanno avanti: incoraggio chi lavora con me a considerare passato anche quello che è successo pochi secondi fa. E poi c’è una memoria che è pura funzione immaginifica, ovvero quella rivolta ai nostri avi, a chi prima di noi ha agito le nostre stesse mobilità. Alla base del mio lavoro con gli interpreti c’è il tentativo di trovare strategie di gemellaggio tra il pensiero e il corpo. 

Spesso collabori con Chiara Bersani, com’è nata questa collaborazione?

Siamo amici: 11 anni fa abbiamo iniziato a scriverci delle lettere, che si sono trasformate in scambi notturni in cui ci raccontavamo le nostre paure e i nostri desideri. Mi viene naturale parlare con lei di ogni processo creativo e dal 2015 ci siamo sempre resi partecipi l’uno dei progetti dell’altro. I nostri incontri avvengono spesso in circostanze domestiche davanti ad un caffè, ad un tè… dialoghiamo per ore e ore, entrando nell’esperienza dell’altro per aprire delle nuove possibilità.

È poi successo che hai persino creato uno spettacolo su una lettera?

Sì, Best regards, presentato in prima nazionale alla Biennale danza 2021, è una lettera scritta a qualcuno che non risponderà mai, un esercizio di memoria, una danza all’ombra di Nigel Charnock, performer e co-fondatore di DV8 Physical Theatre, scomparso nel 2012 e con cui ho avuto anche la fortuna di lavorare. 

In questo spettacolo ogni volta che vado in scena leggo una lettera scritta per il pubblico da Chiara di cui non so niente: leggendola per la prima volta mi metto nella stesse condizioni dello spettatore.

Per la tua ricerca il pubblico è un motore altrettanto importante?

Assolutamente. Voglio creare relazioni con il pubblico, voglio instaurare sempre un patto reale con gli spettatori, nel momento esatto della performance. Mi interessano le ragioni per cui quello sguardo va sempre cercato. E in tutti i miei spettacoli cerco un dialogo continuo con il pubblico.

Nei tuoi spettacoli dai anche ampio spazio alle parole, ai testi.

Sì, ma sempre in relazione alle necessità del lavoro e non in un’ottica di trans disciplinarietà. 

In ogni spettacolo c’è sempre una drammaturgia, che agisce come una struttura ossea: una rete di rimandi, una consequenzialità delle cose. Mi interessa che le cose siano chiare, quando parlo di chiarezza parlo di chiarezza del cuore. Se per farlo servono le parole, allora le uso. 

Per me danza è anche la parola o un gesto che facilita e accompagna la visione dello spettatore, senza un intento pedagogico, ma piuttosto con un intento di accompagnamento, un’azione congiunta in cui i cuori battono insieme. 

Per te danza è anche questo?

Non mi interessa capire cosa sia danza e cosa non lo sia ed è questo il motivo per cui continuo a muovermi nel mondo danza, talvolta anche accettando delle critiche: ogni spazio che sfugge alla definizione è sempre uno spazio di possibilità.

Quello che è importante per me è che si attivi sempre una dimensione empatica con lo spettatore, messo di fronte a un corpo che si disgrega in una fatica pesantissima. 

Di fatica e sport ne hai parlato spesso nei tuoi spettacoli, vero?

Sì, in First love ad esempio si parla dello sci di fondo. Sono stato sciatore di fondo agonista per dieci anni, pur non amando questa attività. Io credo che mi sia rimasta addosso una tendenza ad affrontare la scena come agonista anche in rapporto allo spettatore: di fronte ai suoi occhi tendo a creare una sfida per il mio corpo e a vincerla esaurendo tutte le energie. 

In Formazioni, invece, con Chiara Bersani abbiamo lavorato con squadre di giovani adolescenti: ci interessava addentrarci nelle loro dinamiche di gruppo per portare avanti una ricerca sulla forza dei sogni individuali quando devono cercare un compromesso nell’incontro con gli altri.

Noto anche che le scene nei tuoi spettacoli sono essenziali anche se di forte impatto visivo. Per quale ragione?

Agisco su uno spazio molto vuoto, che lo spettatore possa riempire delle proprie immagini. Il mio ultimo spettacolo, Saga, è il primo lavoro con una scenografia complessa, ma in questo caso l’ho utilizzata perché il dispositivo concorre al compimento dell’idea drammaturgica di base.

Pensi che la tua ricerca, che credo sia così originale, possa coinvolgere un “nuovo” pubblico?

Credo che il pubblico del futuro debba essere al centro di ogni riflessione. Credo che sia importante partire dal ruolo che ha il teatro oggi, e che il ragionamento da fare sia come raccontare che il teatro è un luogo in cui vivere. Io vedo il teatro come uno dei luoghi di vita della città dove i cittadini, anche i più giovani, possano vivere una parte della loro vita: non come un luogo “mistico”. 

Credo che chiunque possa avvicinarsi al mio lavoro perché la mia visione del mondo la allargo al pubblico… Faccio sempre il tentativo di consegnare le mie visioni e voglio consegnare al pubblico qualcosa che lo riguarda profondamente.

Lavori con i giovani? Conduci dei laboratori con i ragazzi?

Si mi piace molto condurre laboratori ma è un lavoro complesso e faticoso per me. Li faccio solo quando so di poter condividere, in maniera orizzontale, un tema o un principio di ricerca.

Progetti futuri?

Molte idee e progetti in cantiere. 

Per ora posso parlare dell’assolo che creerò per Marta Ciappina, che a proposito è la miglior pedagoga che conosca. Marta sa unire il rigore tecnico del gesto al peso emotivo della sua biografia: insieme andremo a raccontare la sua vita come fosse un romanzo coreografico.

Com’è nata questa idea?

È un’amica e me lo ha chiesto molto tempo fa. Durante le prove di Saga, di cui lei è interprete, abbiamo prodotto molto materiale che non è confluito nello spettacolo e abbiamo deciso di utilizzarlo in questa nuova creazione.

Mi sembra di capire che per te sia importante lavorare con gli amici…

Diciamo che lavoro con un amico, se l’amico è un artista straordinario!


 

Marco D’Agostin è attualmente in tournèe in Italia e in Francia e queste le date per poter apprezzare dal vivo il suo lavoro:

21 gennaio 2022 Best regards, CCN de Nantes, Nantes

29 gennaio 2022 First love, Teatro di Ragazzola, Roccabianca (Pr)

3 febbraio 2022 Saga, Klap, Maison pour la danse, Marsiglia

18 febbraio 2022 Best regards, Teatro Camploy, Verona

 

 

 

 

© Expression Dance Magazine - Dicembre 2021

 

Photo Credit © Alice Brazzit 

 

 

Valerio Iurato, la danza nel DNA

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Un tema di cui si parla molto negli ultimi tempi è la consapevolezza di sé in rapporto al mondo, ma soprattutto in rapporto alle proprie abilità e competenze. Tale consapevolezza diventa di vitale importanza in un percorso di crescita professionale, come può essere quello del danzatore, in particolare per passare da un contesto amatoriale a un contesto professionale, considerando quanto in quest’arte il corpo sia il “mezzo di comunicazione” preponderante, talvolta lasciato libero di esprimersi in un processo che spesso focalizza maggiormente sull’automaticità del gesto.

Abbiamo avuto modo di confrontarci con Valerio Iurato su questo e su altri temi: Valerio, danzatore e coreografo, ha intrapreso il suo percorso professionale proprio a Ravenna con I.D.A. e oggi, dopo circa dieci anni, lo ritroviamo con esperienze tutte da raccontare e una consapevolezza nuova, dalla quale è partito nella costruzione di un metodo di apprendimento all’avanguardia…

Valerio e la danza, un amore che nasce in Sicilia, ma non è caratterizzato dai soliti percorsi. Tu cominci come ballerino di danza latino-americana, corretto? Raccontaci i tuoi primi passi.

Per rispondere a questa domanda, è fondamentale iniziare dicendo che io sono “nato tra la danza” e chi come me è nato da genitori danzatori capirà perfettamente perché ritengo essenziale iniziare da questo presupposto. 

Nello specifico, io sono nato da mamma insegnate di ballo da sala e latino-americani, con zii e cugini, tutti immersi professionalmente nella danza. Ciò ha fatto sì che fosse inevitabile per me scoprire e innamorami di quest’arte. 

Il ballo è parte integrante della mia vita: passione e professione, da sempre! 

Nessuno mi ha mai obbligato a seguire questa strada, ma verso gli otto anni ho sentito di volermi buttare, muovendo i primi passi. Da quel momento non ho mai smesso di danzare: la mia infanzia è caratterizzata da innumerevoli competizioni regionali e nazionali, a passi di cha cha cha, samba, rumba, valzer, tango, giungendo poi in seguito a specializzarmi nel Tango Argentino, con ottimi risultati.

A diciannove anni, per migliorare il mio livello tecnico nel Tango, decido di provare delle lezioni di Classico e Contemporaneo e ne rimango subito affascinato. Questo colpo di fulmine mi porta a decidere di intraprendere la carriera professionale di danzatore contemporaneo: parto per Ravenna! Nella città romagnola ho intrapreso il percorso professionalizzante offerto da I.D.A e, contro ogni previsione e opinione negativa di chi cercava di scoraggiarmi per una questione prettamente anagrafica, eccomi qui, dopo più di dieci anni, e dopo aver danzato e coreografato in giro per il mondo, a poter dire che quella è stata assolutamente la migliore decisione che avessi potuto prendere. 

Pensi che le danze latine siano valorizzate come le discipline più accademiche o hai respirato anche tu una sorta di classismo? 

Non ho mai avuto nessun problema di questo tipo, anzi, essendo coinvolto nel mondo della danza contemporanea, ho sempre trovato che i coreografi con cui ho lavorato abbiano sempre apprezzato l’influenza che queste altre danze hanno avuto nel mio modo di danzare e noto che anch’io sono molto attratto da quei danzatori che alle loro spalle hanno anche esperienza in altre discipline correlate alle proprie radici culturali. 

Quando hai capito che avresti voluto un futuro nella danza? Cosa ti ha portato ad ampliare i tuoi orizzonti, dedicandoti anche ad altre discipline?

Sinceramente sin da quando ho iniziato danza, da piccolo, ho sempre voluto investire il mio tempo in quest’arte. 

Ho sempre vissuto nella danza e di danza e mi ha sempre incuriosito: ogni stile di danza ha sempre attirato la mia attenzione e ciò mi ha portato a coglierne la vera essenza.

Non riuscivo a spiegarmi il perché di questa esigenza, a volte ho anche criticato me stesso per non riuscire a dedicarmi a una sola disciplina, ma adesso ho la risposta. Inconsciamente ho sempre preferito creare, coreografare e insegnare, rispetto a ballare. Questa tendenza creativa ha portato all’esigenza di voler conoscere quanto più materiale possibile, poiché da sempre ritenuto requisito fondamentale per poter dar voce a questo istinto, a questa volontà.

Dalla Sicilia, all’Austria: hai percorso tanti chilometri, come tanti ballerini della tua età. Credi sia fondamentale spostarsi e conoscere anche il mondo della danza fuori dai confini nazionali? Quale di queste esperienze ti ha più guidato nella costruzione del tuo progetto legato all’apprendimento della danza?

Io trovo fondamentale per il danzatore, per il suo sviluppo artistico e personale, aprire i propri orizzonti e sfidare costantemente quelle che sono le proprie conoscenze e convinzioni, uscendo dalla propria confort zone.

Non credo però sia necessario andare fuori dai confini nazionali per ottenere questo: in Italia si trova un ottimo livello di danza e sempre più la scena italiana sta diventando molto internazionale. 

Questo è un valore aggiunto per la crescita di un danzatore che decide di rimanere nella propria nazione. Nella mia esperienza personale, ho avuto la possibilità di conoscere la danza all’estero, prima in Spagna come studente, poi come danzatore professionista ho maturato esperienze in molti teatri in giro per il mondo: America, Canada, Asia, Sudamerica e ovviamente Europa e queste esperienze mi hanno davvero dato tanto. 

Di certo, in Austria ho avuto la crescita maggiore, lavorando per sei anni come solista per il Landestheater Linz, insieme a danzatori provenienti da tutte le parti del mondo e dove ho avuto la possibilità anche di coreografare intere produzioni per la compagnia. 

Neuroplasticità, eccoci qui. Da danzatore a formatore il passo può essere lunghissimo o brevissimo. Tu ora stai lavorando a un metodo per l’apprendimento della danza legato alle neuroscienze. Da dove nasce tutto ciò?

Tutto ciò nasce dalla necessità di rispondere a delle domande che a un certo punto della mia carriera ho iniziato a pormi in relazione a esigenze personali e a quello che osservavo giornalmente tra i danzatori attorno a me. I punti principali di questa ricerca sono il miglioramento della performance e la salute del danzatore. 

Le prime domande sono state:

cosa ho fatto nel mio percorso finora e cosa avrei potuto fare per avere un livello tecnico migliore?

Che cosa mi sta frenando, adesso, in relazione al miglioramento? 

È una questione di età? 

Posso continuare a migliorare il mio livello tecnico anche essendo un danzatore non più giovanissimo? 

In relazione allo stato di salute, è d’obbligo e non vi è altra possibilità quando si diventa danzatore professionista, a causa delle estenuanti ore di lavoro, non riuscire ad avere un atteggiamento salutare nei confronti di quest’arte? 

Queste domande hanno trovato risposta nel campo della scienza e nello specifico nell’area dedicata alla Neuroplasticità (l’abilità data dal sistema nervoso di cambiare in relazione all’esperienza). Studiando questo processo ho imparato a livello pratico la scienza che sta dietro all’apprendimento, partendo dai requisiti a livello biologico e i relativi comportamenti necessari per favorire questo processo e conseguentemente migliorare le proprie capacità, fino a comprendere cosa fare o evitare per approcciare questo processo nella maniera più sana possibile, elemento fondamentale per un percorso professionale duraturo.

Self-awarness, consapevolezza e coscienza di sè sono le parole chiave nella costruzione di una propria tecnica. Cosa ci dice la scienza in merito?

Quando studi qualunque disciplina il cui obiettivo è il “miglioramento”, che sia personale, sociale, culturale o economico, consapevolezza e coscienza sono sempre alla base di tale processo. Non vi è possibilità di migliorare un qualcosa di cui non comprendiamo lo stato attuale. Nel caso specifico della danza, è di fondamentale importanza che il danzatore sia costantemente cosciente dei propri punti di forza e soprattutto dei propri punti deboli, in modo da poter consciamente e attivamente agire nel rafforzamento di tali debolezze. Nello studio del metodo che ho sviluppato, la coscienza gioca il ruolo principale. La maggior parte dei nostri comportamenti, atteggiamenti e abitudini sono di natura automatica, riflessiva, inconscia, e molto spesso non siamo consapevoli di ciò. Qui il giusto utilizzo, o come preferisco chiamarlo, il giusto posizionamento della nostra coscienza, ci permette di non auto ingannarci, ma di auto esaminarci (self-awarness) e correggere consciamente se necessario tale processo. 

Come pensi di inserire un metodo scientifico nell’apprendimento di un’arte? 

Molto spesso la nostra natura ci porta a dover creare un antagonista rispetto a ciò in cui crediamo, in modo da rafforzarne la validità. Nello specifico credo che la scienza sia stata spesso etichettata tra gli antagonisti dell’arte. Razionale contro irrazionale. La danza è un’arte che richiede il pieno coinvolgimento del nostro essere: fisico, mentale e spirituale. Questo totale coinvolgimento rende quest’arte estremamente completa, ma allo stesso tempo estremamente complessa. Tale complessità a volte scoraggia o blocca il processo di crescita personale e artistica del danzatore. Sono convinto che, facendo conoscere al danzatore i meccanismi che stanno dietro quei processi di cui ha bisogno quando danza, meccanismi che la scienza studia e ci insegna, essi possano aiutarlo nella massimizzazione delle proprie qualità, fisiche e mentali e, conseguentemente, anche in un miglioramento nell’espressione artistica. 

Il tuo obiettivo e i tuoi prossimi passi?

L’insegnamento e la coreografia sono i due campi dove sto dedicando totalmente le mie forze e il mio tempo. Il mio obiettivo è di poter divulgare il più possibile il mio metodo di insegnamento, con la speranza di poter contribuire ad un avanzamento a livello sia di performance sia di salute in questa arte. Un giorno conto di poter avere la possibilità di creare una mia compagnia dove il danzatore avrà la possibilità di poter scoprire ed esprimere le proprie piene potenzialità in un ambiente che favorisca totalmente questo processo.

Noi come I.D.A. crediamo fortemente nelle intuizioni di giovani coreografi e danzatori. Come abbiamo constatato con Valerio, spesso la possibilità di danzare in diversi contesti come professionista, apre le porte a profonde riflessioni che portano a grandi conquiste e nuovi obiettivi.

Ci vediamo presto Valerio!

 

 

 

 

© Expression Dance Magazine - Dicembre 2021

 

Credit Photo © Ness Rubey

 

Macia Del Prete, nel materiale umano cerco l'altrove

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Non è un nome d’arte ma un grande porta fortuna, mia sorella minore mi chiamava così quando era piccola e da allora io per tutti sono Macia… solo quando mia mamma si arrabbia seriamente mi ricordo di chiamarmi Mariarosaria. Ho iniziato questo lavoro per necessità quando mia mamma, che dirige una scuola di danza a Torre Annunziata (NA), ha avuto un  incidente stradale: ho iniziato ad insegnare a 16 anni per aiutarla. Io volevo fare la pediatra ma poi ho continuato su questa strada anche se, all’inizio, quando mi chiamavano ad esibirmi nell’hinterland campano, io ci andavo soprattutto per divertirmi”.

Macia del Prete ha 36 anni con nessuna paura di invecchiare, ama gli animali e persino le zanzare, ed è talmente sincera che è come se mettesse anche te stesso davanti ad uno specchio per cercare la tua vera identità. Dalla provincia di Napoli è partita da una scuola di danza privata e da lì ha girato tutto il mondo.

Macia cosa ti ha portato l’esperienza di lavoro in una scuola di danza?

Lavorare in quel territorio è stata una sfida continua non tanto per insegnare tecnica ai ragazzi quanto perché devi lavorare molto per scolarizzare le famiglie che, d’altro canto, quando capiscono che fanno parte di un percorso più ampio hanno talmente tanta energia che poi ti danno tutto.

Con quale disciplina hai iniziato?

Ho iniziato con l’hip hop, lo vedevo più adatto alla mia fisicità, era la disciplina che indossavo sul mio corpo più facilmente poi, parallelamente, ho sviluppato un grande interesse per la coreografia e con il tempo ho sempre meno amato stare in scena ed essere esposta in prima persona. Poi pian piano ho capito che la danza poteva diventare la mia vita e ho cominciato a studiare a New York (Broadway Dance Center, Peridance, Steps on Broadway): tornavo e partivo e a intermittenza, ogni tre mesi, ritornavo a studiare nella grande mela perché mi scadeva il visto.

 

Macia del prete ph.Di Donna

E poi per diverso tempo hai fatto anche la danzatrice?

Si ma poi ho smesso, perché la coreografia è diventata il mio terreno di elezione. Sono ritornata sul palco solo quando mi ha chiamata Bill Goodson che mi ha voluto per un tour di Renato Zero nel 2013. Io pensavo di assisterlo invece mi voleva come danzatrice e io in quel momento non volevo una sovraesposizione, però poi ho accettato ed è stata un’esperienza meravigliosa.

Credo sia fondamentale far capire che essere danzatori non sia l’unica professione possibile per chi vive di danza; conoscere la danza dall’interno del settore è una base fondamentale per conoscere questo mondo in modo attento e per avere una base su cui costruire anche altre professioni che vivono ugualmente di danza.

E come mai hai deciso di trasferirti stabilmente a Milano?

Dopo aver terminato la lunga tournèe di Renato Zero ho sentito la necessità di mettere radici e a Milano, dove è tutto più vivace, ho avuto diverse opportunità lavorative e così parallelamente alla mia attività di coreografa, ho ricominciato ad insegnare stabilmente in un percorso professionale. Ho fatto delle scelte e ora ho scelto di volere una continuità che in passato non avevo perché ho fatto anni di nomadismo estremo e a suo tempo l’ho trovato necessario per fare esperienza. Avere una casa fissa mi ha aiutato e in quel momento ho sentito la necessità di segnare un sentiero nuovo e cambiare completamente. Mi ritengo comunque una persona e un’artista molto trasversale che riesce anche a lavorare su piani diversi contemporaneamente.

E poi a Milano è nato un nuovo approccio con il mondo della danza, in che modo?

Attraverso il mondo della moda perché mi hanno cominciata a chiamare come movement director per numerosi brand. Mi piace molto sperimentare anche in questo settore perché, pur mantenendo la mia identità, ho aperto la mia professionalità verso un bacino di utenza molto diverso da quello a cui mi rivolgo abitualmente. La moda mi ha anche aperto ad un senso estetico nuovo, diverso, che ha arricchito la mia esperienza artistica.

E poi, quando sono arrivata a Milano nel 2016, ho cominciato a collaborare stabilmente con la cantante Emma come coreografa dei suoi tour e numerosi video clip.

Come sei arrivata a creare il tuo stile coreografico così particolare? 

Negli anni ho codificato una serie di workmap, dedico una parte abbastanza importante della mia ricerca all’ascolto del corpo del danzatore attraverso un materiale coreografico, sono attenta al percorso umano altrimenti vedo solo passi e corpi che si agitano e, per questo, non servo io lo può fare anche un altro insegnante. 

E la tua compagnia Collettivo Trasversale com’è nata?

E’ nata nel 2017 da una commissione di lavoro da parte di Emma Cianchi (Art garage di Pozzuoli) che, come artista e ottima amica, con la sua richiesta mi ha aiutato canalizzare le energie che avevo internamente e a conoscere meglio la mia identità artistica.

Credo di fare il mio lavoro quanto possibile organico come concetto: mi piace il pensiero di poter spaziare verso la novità, ho bisogno che il giorno precedente sia sempre diverso da quello successivo. 

Come scegli i danzatori delle tue creazioni?

Io scelgo quelli scartati dagli altri perché troppo alti, troppo bassi, troppo urban, troppo in carne e così via. Detesto gli stereotipi e la diversità è alla base della mia ricerca creativa. Ho la necessità di imbattermi in un materiale umano che “semplicemente” abbia una sua qualità netta, che sia personale e che manifesti chiaramente una luce propria. L’individualità e la personalità sono cardini di attrattiva per me.

Mi piace la naturalezza del gesto, perché il danzatore si riappropri del suo essere umano; guido alla ricerca e poi sento i punti cardini propri di ogni danzatore. Credo nell’ascolto sfruttando quello che si ha, credo che ognuno abbia un proprio punto di partenza e che, grazie alla mia ricerca, possa arrivare a nuove esplorazioni del proprio corpo: voglio portare il danzatore al piacere di quello che fa.

Quindi per te la danza può essere anche terapia?

Certamente. Ultimamente ho anche creato uno spazio di ricerca del movimento per non danzatori e sta avendo una funzione terapeutica: aiuta a liberare la testa specie dopo l’esperienza vissuta negli ultimi due anni… in molti abbiamo avuto scompensi emozionali.

E Macia come si sente dopo questi anni?

Che dire… finalmente siamo tornati di nuovo in scena ma la prima volta sul palco mi sembrava di essere tornata indietro anni luce! 

E ora con quale spettacolo sei in tournèe?

Body things Xxy Chapter 2 che è il sequel di Body Things, investigazione sulle molteplici variabili del nostro strumento corporeo, spettacolo interpretato da due danzatori invece che sei del primo capitolo. Il lavoro rappresenta un’analisi delle fluttuazioni di genere attraverso un’introspettiva sulla realtà del genere nelle persone intersessuali. Lo spartito coreografico si snocciola attraverso una narrazione fragile e difficile incentrata sulla percezione intima e “diversa” di un soggetto non binario mediante le prime esperienze sentimentali e sessuali, tra la confusione che tutto ciò può creare e la pressione psicofisica che essi subisce nel dover operare una scelta sul proprio corpo “strano”. Una spirale di compromessi da accettare e domande a cui trovare risposta concretamente con il corpo ma concettualmente con la mente ed il cuore.

Questi temi mi stanno a cuore e per me è molto importante esplicitare il mio percorso individuale anche attraverso la danza.

Su Instagram sei molto popolare, ti piacciono i social?

Io pubblico ma non ho fatto niente per incrementare le mie pagine, i miei followers sono naturalmente seguaci, perché non sono un personaggio che ha fatto tanta televisione e ho avuto un’attenzione mediatica per questo motivo. Ho avuto attenzione invece essendo come sono, pane al pane. Per come sono fatta io rasata, piena di tatuaggi, non era così scontato che potessi aprire una breccia nel pubblico. 

Credo quindi che con l’intelligenza si possa fare di tutto e mi sono sempre messa nelle mie condizioni perché tento sempre di fare quello che mi passa per la testa. Non riesco mai a godermi la quiete: una mattina posso stravolgere anche la mia vita. Anche se poi c’è un processo silente che mi costa, lo combatto ma poi non ce la faccio e alla fine faccio sempre quello che ritengo giusto. Sono sempre onesta con me stessa.

E con gli altri?

Sono una persona sincera se vengo interpellata dico quello che penso. Penso spesso e lo esplicito che ad esempio il mio lavoro possa bastare a se stesso ma in Italia non è così, sembra sempre che devi dimostrare qualcosa. Invece quando sono tornata per lavoro a New York chiamata dalla Peridance Contemporary Dance Company e quando, come professionista, sono entrata in sala nessuno mi ha chiesto da dove venivo. Lì c’è proprio un’altra forma mentis: chi entra in sala ha qualcosa da condividere punto e basta e nessuno dovrebbe giustificare i pensieri che ha. 

La mia sincerità si esplicita anche nel mio terreno d’elezione che è lo spettacolo dal vivo, in teatro, perché lì, con il pubblico, nessuno può mentire e io mi sento a mio agio perché posso essere completamente sincera.

Parallelamente al tuo lavoro di coreografa continui a insegnare. Ogni tanto torni ancora ad insegnare nella scuola di danza da cui tutto è partito e che ora dirige anche tua sorella?

Sì, ci torno ma non per lavorare (anche se insistono tantissimo per ospitarmi), ma quando vado a casa il mio primo pensiero è quello di riposarmi e stare con la mia famiglia con cui ultimamente sto davvero poco.

Pensi che il momento formativo nelle scuole e negli workshop siano sempre una buona palestra per emergere?

Sì, continuo a pensare che il contenitore scuola e formazione siano ancora un’officina interessante, anche insegnando in particolare percorsi che hanno una prospettiva professionale. Molto di questo materiale che raccolgo nei momenti formativi torna nei miei lavori coreografici. 

Voglio insegnare a chiunque… mi restituisce molto della mia identità, però il ruolo di insegnante lo prendo sempre con le pinze, se mi chiamano maestra mi sento troppo strana, su un piedistallo e non mi sento nei miei panni. 

Riporto il mio metodo anche negli stage dove cerco di delineare una crepa nelle micro sicurezze dei ragazzi per portarli a guardare altrove.

E poi non voglio che i miei studenti diventino una nuova me, perché io esisto già.

 

 

© Expression Dance Magazine - Dicembre 2021

 

 Photo Credit © Marco Di Donna 

 

 

Linee guida per l'attività sportiva aggiornate al gennaio 2022

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Il Dipartimento per lo sport della Presidenza del Consiglio dei Ministri il 10 gennaio 2022 ha pubblicato le ultime linee guida per l'attività sportiva di base e l'attività motoria in genere, ai sensi del decreto legge del 22 aprile.

Per approfondimenti:

Linee guida > 

 

Quale green pass occorre per accedere alle strutture sportive? Cambia in base al colore delle zone? Leggi il riepilogo

Green Pass nelle strutture sportive >

 

Di seguito anche le FAQ aggiornate al 10 gennaio 2022:
FAQ aggiornate >

 

 

 

Paga in tre comode rate con Paypal e carta di credito

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Da oggi puoi affiliarti e acquistare corsi, seminari, workshop ed eventi IDA pagando in tre comode rate senza interessi aggiuntivi con PayPal/carta di credito.

Il sistema mostra in automatico la somma totale suddivisa in tre rate.

La data della prima quota corrisponde al giorno di acquisto. Le successive due rate saranno addebitate lo stesso giorno nei due mesi successivi.

Esempio:
Quota d’iscrizione corso + dispensa cartacea € 488
Data di acquisto 22/12/2021

Rateizzazione:
- 1° rata € 162,72 addebito in data 22/12/2021
- 2° rata € 162,72 addebito in data 22/01/2022
- 3° rata € 162,72 addebito in data 22/02/2022

COME ACQUISTARE CON PAYPAL/CARTA DI CREDITO:

Per l’affiliazione:

  1. Dalla pagina dell’affiliazione di tuo interesse seleziona come metodo di pagamento “ISCRIVITI Carta di credito-PayPal”
  2. Compila il modulo inserendo tutti i dati richiesti
  3. Accetta termini e condizioni e clicca su INVIA ISCRIZIONE, sarai reindirizzato alla pagina di PayPal
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Per corsi/seminari/workshop/eventi:

  1. Effettua l’accesso alla tua area riservata dalla voce del menù LOGIN inserendo le credenziali ricevute al momento dell’affiliazione
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  4. Aggiungi il corso al carrello e se desideri anche dispensa e diploma EFA
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Riforma del terzo settore: per le scuole di danza può essere un'opportunità?

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La riforma del terzo settore preoccupa il mondo delle associazioni, in molti si chiedono quanto inciderà sui settori dello sport e della danza. Tutto è ancora abbastanza incerto, ma con l’avvicinarsi della realizzazione del RUNTS (Registro Unico Nazionale Terzo Settore) prevista per il 23 Novembre, sono sempre più le realtà che cercano di capirne le potenzialità e le eventuali opportunità. La trasformazione in APS (Associazioni di Promozione Sociale) o in altri enti del terzo settore previsti dalla riforma richiede la conoscenza delle finalità e delle differenze.

FIF e IDA hanno deciso di rivolgersi ad un esperto come l’avv. Guido Martinelli che da sempre è attento alle dinamiche sia del mondo sportivo che di quello associazionistico in genere. Il fine è quello di avere almeno delle linee guida per capire, all’interno delle singole situazioni, se aderendo a questa riforma ci sono opportunità migliorative rispetto alle ASD e SSD.

Per cercare di ottenere maggiori chiarimenti sulle nuove normative e dirimere dubbi sulla nuova riforma del terzo settore vi diamo appuntamento:

MARTEDÌ 23 NOVEMBRE ALLE ORE 10.00
in diretta live sulle pagine Facebook di FIF e IDA

La diretta è accessibile a tutti e sarà possibile porgere le proprie domande nella sezione commenti.

L’incontro verrà registrato e pubblicato su www.idadance.com

Per qualsiasi informazione contattaci allo 0544 34124 o scrivi a danza@idadance.com

 

 

Danza e fotografia in natura alla ricerca di una nuova umanità

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Proprio in questi due anni in cui il corpo è stato messo bruscamente da parte, ci siamo imbattuti nel progetto Gaia / La nuova umanità in cui il corpo è invece in continuo movimento e ne è l’assoluto protagonista. La ricerca di Gaia nasce da una riflessione personale e condivisa dei fondatori, il fotografo Fabio Sau, il coreografo e danzatore Antonio Bissiri, e la danzatrice Angela Valeri Russo, in collaborazione con la fotografa Lucia Baldini, sulle condizioni in cui versa il pianeta e da un'analisi di ciò che influenza il nostro bagaglio culturale, condizionato da una visione della vita antropocentrica in cui tutto deve piegarsi alla volontà e alle necessità dell’essere umano. Sulle rive del Mar Morto, nel 2019, Il collettivo Prendashanseaux a un certo punto del proprio percorso artistico si è chiesto se questo sistema di mondo in cui viviamo ci rendesse davvero felici e se fosse stato possibile vivere la conclusione di un era e inaugurarne una nuova. La ricerca artistica che portano avanti è di fatto un pellegrinaggio che vuole concludersi in Terra Santa, perché proprio lì è nata l’idea di questo particolare progetto che coinvolgendo danza, movimento e fotografia lavora con il corpo in spazi naturali e in stretta relazione con l’ambiente.

Nel 2020 il progetto ha subito una forte battuta d’arresto nel programma del viaggio a causa della pandemia, ma questo non ha fermato il collettivo che ha portato avanti il progetto esplorando maggiormente la Sardegna, paese di origine dei fondatori per poi proseguire in Emilia Romagna, Toscana, Trentino e Friuli Venezia Giulia.

Mutevole, in dialogo con i luoghi e le differenti comunità che vi abitano, Gaia / La nuova umanità ha lo scopo di costruire un linguaggio e un immaginario comune sul tema del rapporto che esiste fra spiritualità, uomo e natura; il progetto vuole diventare un atto concreto di volontà in cui il pubblico è co-partecipe, co-creatore e co-responsabile. La perfomance che ne deriva è il risultato di una ricerca artistica nella natura selvatica che dura tra i 10 e i 12 giorni in cui i performer cercano una relazione stretta ed inclusiva con l’ambiente circostante. La performance non è uno spettacolo, classicamente inteso, ma una restituzione dello spazio e per lo spazio attraverso il corpo e le immagini fotografiche che mira al coinvolgimento di artisti professionisti, grazie alla loro partecipazione al ritiro " Gaia -custodi della Terra- " che dura cinque giorni immersivi, e in alcuni casi al coinvolgimento di amatori e abitanti del luogo ai quali viene proposto un laboratorio esperienziale di movimento e un laboratorio fotografico esperienziale. 

I due laboratori sono interconnessi ed iniziano sempre insieme per poi proseguire autonomamente così che il fotografo possa sperimentare il linguaggio del corpo e, chi si muove, vedervi ritratto mentre è in relazione con l’ambiente. Le pratiche e gli esercizi proposti vengono delineati e creati in natura durante il periodo di ricerca per poi renderli accessibili attraverso il racconto esterno che si concretizza nei laboratori.

GAIA  nella sua forma completa prevede la creazione di un docufilm le cui immagini sono girate quasi interamente da Fabio Sau, e di un progetto fotografico che diverrà una mostra/installazione e un progetto editoriale attraverso il coinvolgimento di Lucia Baldini‍.

Antonio Bissiri, uno dei fondatori del progetto che ha lavorato come danzatore con compagnie come Esklan Art's Factory, Teatro dei Servi Disobbedienti, Compagnia Bologninicosta, Compagnia Vucciria Teatro e Artemis Danza, si dice soddisfatto di come sta andando il progetto perché attualmente sente che si è consolidato e che è stata protetta la sua natura così particolare. 

“La modalità di ricerca che adottiamo è inclusiva, in tutto il periodo in cui abitiamo il bosco o lo spazio naturale non solo cerchiamo di stabilire una relazione con il luogo, ma ci dedichiamo anche ad esperienze sciamaniche, giorni di digiuno e giorni di silenzio… la performance per noi è solo un momento in cui tiriamo le fila di un discorso”. 

Bissiri crede che sia importante vivere in natura perché allo stato attuale trascuriamo il corpo vivendo troppo a lungo in un contesto urbano, denaturalizzato e che il corpo e anche tutto il resto ne soffre; anche se ammette che se esistesse solo questo sarebbe comunque un limite ed è per questo che sta riflettendo su azioni che possano collegare i due mondi come l’idea, ad esempio, di tenere una classe di danza classica in natura anche di inverno. Questo perché non vuole tralasciare il legame con la sua esperienza in un contesto didattico, però quando ha avuto occasione di entrare in sala si è reso conto che “dove viviamo non ci sono esseri viventi per creare una relazione ma geometrie con uno spazio morto… mi piace ritrovare nel mio progetto invece uno spazio vivo che cambia giorno dopo giorno, dove tutto si trasforma e il corpo scopre qualcosa di nuovo”. 

Secondo Antonio nessuno di noi ha il potere di cambiare meccanismi, bisogna fare piano piano però chi sente qualcosa lo deve ascoltare subito anche se poi ci si sente in crisi uscendo dalla propria centratura ma poi la nuova relazione creata continua nel futuro. Per esempio Bissiri ultimamente ha lavorato con il fango, rimanendoci immerso per un’ora anche per una restituzione pubblica dimostrando che si può provare anche resistenza al proprio corpo: “il mio corpo ha lottato ogni momento per la resistenza e questo gli ha fatto sentire il corpo in maniera totalmente diversa da quello che aveva mai provato in compagnia”.

Ci siamo congedati con una frase che mi ha colpito molto: “ho un po’ meno, ma sto capendo molto di più, cerco di sperimentare un’esigenza artistica in maniera intelligente ma è evidente che ci debba essere un collegamento di mondi che esistono e si devono scambiare a vicenda; che bisogna trovare un equilibrio anche tra tecnologia/progresso con natura per essere creativi e non distruttivi”.

Il progetto ha visto l’ultima sua restituzione in agosto, in un contesto perfetto, Abitare Connessioni, festival che è stato concepito come un “intervento totale” che contribuisce a rifondare lo spazio pubblico e il cui programma artistico nasce dall’incontro e dalla felice contaminazione tra tradizione e iper-contemporaneità. 

Attendiamo nuove tappe e nuove restituzioni del viaggio di Gaia / La nuova umanità (info su: www.gaialanuovaumanita.com) con la convinzione che i contenuti e le modalità proposte da questo progetto possano fare da apripista a nuove modalità esplorative del movimento e della danza.

 

 

 

Foto di © Lucia Baldini

 

© Expression Dance Magazine - ottobre 2021

 

 

Danza e video: i trucchi per comunicare al meglio il proprio racconto coreografico

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La danza, l’arte della performance dal vivo, legata alla coreografia e al tempo stesso espressione viva di improvvisazione, da sempre figlia della maestosità del teatro, dell’ebrezza da palcoscenico, ha dovuto ripensare e ridefinire i suoi spazi: la pandemia, di cui tutti siamo consapevoli e protagonisti, ha portato infatti a enormi stravolgimenti anche nelle modalità di fruizione della danza.

La chiusura dei teatri e dei grandi eventi, l’impossibilità delle persone di usufruire di spazi comuni, ha reso necessario lo sviluppo di nuovi dialoghi tra forme comunicative apparentemente distanti come ad esempio la danza e la produzione video.

A fronte di questi cambiamenti, un confronto con un’esperta del settore ci è sembrato naturale. Leila Cavalli, diplomata in produzione e script supervising alla Civica Scuola di Cinema di Milano nel ’95 ha unito questi due mondi.

Leila, parlaci un po’ del tuo percorso, cosa ti ha portato alla danza e soprattutto alla regia nella danza?

In realtà la danza ha sempre fatto parte della mia vita, anche se in modalità non canoniche. Danza e produzione video sono presenti nella mia vita da sempre, con lo sviluppo di percorsi paralleli, destinati a incrociarsi.  Sono cresciuta nella scuola di teatro di famiglia, in più, mia mamma, da piccola, mi portava sempre in giro per l’Italia e l’Europa per stage di danza contemporanea. In realtà non ho mai frequentato una scuola di danza, ma in questo modo è nato un rapporto libero con essa, privo di vincoli.

Poi a Cesena ho incontrato Sara (Tisselli) e il mio rapporto è ripreso attraverso l’acrobatica e il BodyFlying, discipline che amo, che mi hanno donato tanto e che insegnano tanto anche nella vita.

Per ciò che riguarda il cinema, io mi sono diplomata alla Civica Scuola di Cinema di Milano. Ho avuto la fortuna di incontrare, nel mio percorso, insegnanti eccezionali, con i quali ho potuto vivere concretamente il mondo della produzione cinematografica (in 3 anni di scuola abbiamo preso parte a una cinquantina di produzioni).

Ho avuto modo di continuare con la formazione, specializzandomi alla New York Film Academy e attraverso seminari con grandi professionisti, cominciando poi il lavoro in produzione, sia nella regia, sia come assistente che come montatrice.

Per indole famigliare tutto ciò che apprendevo lo trasformavo in materiale per insegnare cinema nelle scuole, assecondando anche la mia passione per i cartoni animati.

Ora come descriveresti il tuo lavoro, anche dopo questi due anni di pandemia?

Con la pandemia ho approfondito la possibilità di unire la danza alla realizzazione di video professionali, cercando la modalità più efficace per comunicare un racconto di danza attraverso il video, cercando di ragionare e di riflettere sulla coreografia in maniera cinematografica.

Dal momento che passi attraverso un mezzo, devi per forza far passare il racconto da quel linguaggio: far vedere i dettagli, dal passo al gesto tecnico, così da restituire la coreografia che il coreografo pensava di raccontare. 

Diventa qui fondamentale il rapporto tra coreografo e produzione, poiché è impossibile raccontare una storia, senza la comprensione reale e a 360° del creatore di tale storia.

Siamo invasi dalla tecnologia, ma ancora per molti è complicato raccontare e raccontarsi attraverso i video. Secondo te qual è la difficoltà principale di questo linguaggio?

La difficoltà principale è che si usa un mezzo senza conoscerne il linguaggio: ricreare energia differita, usare il linguaggio del cinema, dove diventa fondamentale il movimento, il cambiamento delle inquadrature.

Se non si sa guardare, non si può raccontare. Per imparare a guardare, bisogna prendere tempo e procedere a piccoli passi, in modo da imparare a cogliere le sfumature, a comprendere la coreografia e il suo racconto.

Il linguaggio per immagini in movimento non è immediato, per questo è fondamentale imparare a esprimerlo.

Si tratta di un linguaggio diverso da quello utilizzato nella vita quotidiana. In questo caso è necessaria la fantasia.

Il nuovo corso IDA porterà a unire due linguaggi, quello del corpo in movimento e quello del video, un compito non facile.

Quali saranno le caratteristiche principali del corso partendo da questo presupposto?

Mi preme fare un percorso personalizzato, la mente creativa deve essere una, per cui cercherò di capire, nel più breve tempo possibile, chi sono i partecipanti e vedere come lavorano con il telefonino, in modo da permettergli di arrivare il prima possibile a far scattare il “meccanismo creativo”. Non è un processo scontato, dipende dal talento innato e dalle capacità personali, per questo il corso sarà a numero chiuso: voglio capire il background di ogni singolo partecipante, aiutarlo in questo processo un passo alla volta.

Gireremo tante piccole cose, solo così sarà possibile sviluppare le singole capacità necessarie nella creazione dei “racconti di danza in video”, solo così potrò capire quello che loro “vedono”, capire quello che loro davvero vorrebbero mostrare in base a ragionamenti e sensazioni; solo così potremo arrivare insieme a capire cosa funziona nel racconto e cosa andrebbe tagliato o reso in altro modo.

Come concretizzare il proprio pensiero prima di premere REC?

Per concretizzare il proprio pensiero è ovviamente fondamentale imparare a guardare l’inquadratura e capire cosa voglio raccontare, così da essere davvero consapevole di quello che sto facendo.

Questo passaggio richiede tempo, poi, come dico io, quando scatterà quel “meccanismo creativo” allora tutto il processo sarà automatico.

Per questo motivo, come anticipato poco fa, faremo tanti piccoli video. 

Si tratto di un percorso di grandissima scoperta e grande entusiasmo perché l’evoluzione sarà visibile proprio da subito, da un video all’altro. Nozioni piccole, fondamentali, facilmente assimiliabili.

Imparare a guardare un’inquadratura significa imparare a tenere presente almeno 15 cose. Il mio intento non è lavorare subito su tutti questi 15 punti in contemporanea, ma lavorare per gradi, un passo alla volta: la prima parte sarà caratterizzata dal lavoro sui piani sequenza, senza editing, così da capire tutto, dalla A alla Z.

Poi ci sarà il lavoro sui movimenti di macchina: panoramica e movimenti, perché se non si cambia inquadratura, il racconto muore. Il video è un linguaggio basato sul movimento e il cambio di piano.

Durante la pandemia molti si sono cimentati nella realizzazione di video per documentare le coreografie iscritte a concorsi online, purtroppo però la documentazione fa fatica ad arrivare allo spettatore, perché nella maggior parte dei casi si tratta di video statici: scuole di danza hanno parlato attraverso un linguaggio di un mezzo non loro, che ha reso il racconto più debole. Il mio obiettivo è dar loro questo mezzo, la costruzione di video nella danza, attraverso il quale comunicare al meglio il loro racconto.

Editing: cosa significa per te e come può facilitare il lavoro nella costruzione dei video? 

 

Il montaggio è fondamentale dal punto di vista di questo linguaggio: passare da un’inquadratura all’altra, nella coreografia, significa capire come unire i pezzi, come sottolineare i dettagli da mettere in evidenza.

Ciò non è mai immediato.

In Italia trovi che questo percorso sia adeguatamente compreso e valorizzato? 

No, come tanti aspetti riguardanti le arti, purtroppo in Italia c’è una profonda ignoranza, poiché non si creano spazi conoscitivi e di approfondimento per capire questo linguaggio.

Una delle cose belle del lockdown è stata proprio il risveglio dell’interesse nei confronti di tanti aspetti legati a danza, video e altre forme di arte, che credo ci abbiano salvato la vita: le persone hanno avuto bisogno di fruire dell’arte.

Danza e musica hanno invaso internet e salvato molti cuori.

Credo sia diventato evidente a tutti quanto sia necessaria una formazione dedicata, anche per gli insegnanti, poiché i problemi di comunicazione in DAD sono stati tanti e costanti, diventa oggi necessario imparare a parlare e comunicare anche davanti alle telecamere. 

Negli anni 2000 c’era più apprensione legata al mezzo televisivo in quanto mezzo di comunicazione di massa, questa apprensione è poi scemata con l’avvento di internet: gli insegnanti si sono messi a imparare come navigare, ma non hanno dato molta importanza alla modalità comunicativa del mezzo (la televisione, che non prevedeva partecipazione attiva dello spettatore, aveva suscitato tantissimi dubbi e paure).

Nuovi linguaggi, nuove sfide educative: da cosa è necessario partire nella realizzazione dei video?

Educazione e formazione.

Per poter parlare tutte le lingue, è necessario conoscerle nelle strutture di base, ciò è valido anche nel linguaggio video: se non lo parli, fai fatica a costruire un racconto efficace.

Per partire è necessaria una buona dose di curiosità. Andare alla scoperta in maniera qualificante, divertente, serena di questo linguaggio.

Oggi gli strumenti sono tanti, sono a disposizione di tutti e utilizzabili fin da subito, ma il linguaggio di internet e dei video è talmente lontano da insegnanti e genitori, che loro non si interessano o, anche volendo, non riescono a stare al passo dei nativi digitali.

Di contro i nativi digitali non hanno gli elementi per comprenderlo, ma sono tecnologicamente veloci e utilizzano questi mezzi senza la necessaria consapevolezza. Tutto ciò sarebbe invece fondamentale nell’educazione dei giovani. 

Purtroppo non esistono corsi per insegnanti su come restituire consapevolezza ai giovani, in più gli adulti sono troppo lenti in questo percorso di apprendimento, per questo non sanno come comunicare in video con gli allievi.

L’Italia in questo processo è indietro: non credo sia demonizzando i mezzi di comunicazione che si arrivi a un dialogo sano con i giovani, ma credo sia vincente la valorizzazione dei punti di forza. Educare e formare anche nel mondo scolastico potrebbe essere la ricetta giusta per recuperare il ritardo.

 

 


Leila Cavalli terrà il corso "La regia cinematografica per la danza" a Ravenna a partire dal 27 novembre.


 

 

 

© Expression Dance Magazine - ottobre 2021

 

 

 

 

 

 

 

Dalla preparazione fisica alla performance di alto livello: come coltivare la fisicità del danzatore nel percorso di professionalizzazione

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Negli ultimi decenni il mondo della danza, in particolare quello occidentale, ha incontrato quello del fitness. Non possiamo girarci intorno, innegabile la centralità della preparazione fisica nel ballerino, una preparazione che non può certo esimersi dal rapporto con il fitness: ciò non deve essere letto come una blasfemia, ma semplicemente come l’evoluzione della disciplina e l’acquisizione di consapevolezza legata alla preparazione fisica del danzatore, nel suo percorso di raggiungimento della perfezione nel gesto artistico.

L’evoluzione di cui parliamo è senza dubbio naturale e fisiologica e riguarda anche le tipologie di coreografie messe in scena negli ultimi anni e decenni: più complesse e difficoltose, necessitano ogni giorno di più di una preparazione fisica basata su evidenze medico/scientifiche e sulla periodizzazione degli allenamenti.

La prospettiva sta cambiando, le posizioni dei protagonisti del mondo della danza, dagli artisti ai coreografi, alle scuole di danza, si stanno evolvendo anche grazie alle numerose ricerche. 

Fino a oggi parlare di preparazione fisica nella danza ha sempre spaventato e per questo venivano evitati discorsi legati alla forza e allo sviluppo muscolare: molti ballerini sono restii nel parlare di “forza” e di sviluppo muscolare, poiché temono di vedere i propri muscoli aumentare e risultare quindi non in linea con i dettami di determinate discipline, poiché i muscoli particolarmente sviluppati riducono la fluidità e la bellezza del movimento e del gesto. In realtà però anche gli allenamenti di forza sono risultati, a fronte di numerosi studi e ricerche, fondamentali nella tenuta fisica del ballerino.

Oggi la danza non può fare a meno della scienza medica e motoria nello sviluppo di programmi di allenamento idonei e basati sullo studio delle performance e delle capacità tecniche di esecuzione dei movimenti dei singoli danzatori, per arrivare a forme fisiche ottimali, ma soprattutto nella prevenzione di infortuni.

La danza, nella sua espressione artistica, sta rapidamente mutando. Le fondamenta su cui si basa da sempre, quali tecnica e arte, si stanno progressivamente unendo alla resistenza fisica e mentale: diventa sempre più importante per le scuole e le accademie comprendere e rinnovare i percorsi di preparazione fisica. Diventa fondamentale incoraggiare i progetti di ricerca in ambito medico/scientifico, in modo da garantire ai danzatori nuove modalità di allenamento, conducendoli a performance di alto livello.

L’allenamento nella danza si fonda sullo sviluppo del potenziale individuale attraverso esercizi specifici, personalizzati anche in base alle caratteristiche fisiche individuali e senza mai dimenticare le inclinazioni psichiche. Il fine ultimo è quello di eclissare le debolezze e migliorare la propria forza. 

Al danzatore sono richieste numerose capacità fisiche per sostenere le difficoltà tecniche presenti nei vari stili.

La performance di un ballerino deve poter essere completamente immersa in una dimensione artistica che non può lasciare trasparire lo sforzo che il corpo compie in quel preciso momento. La sua forza si concretizza attraverso la sua esplosività muscolare, ma la capacità di esprimere la forma artistica emancipata dallo sforzo fisico risiede soprattutto nell’abilità mentale di eseguire con naturalezza un particolare gesto o stile.

Questo significa che potenza, forza, resistenza, equilibrio, coordinazione, dinamismo, elevazione e flessibilità andranno coltivati, insieme alla condizione mentale del ballerino, con particolare attenzione alla gestione dello stress e con un programma dettagliato in grado di integrare la lezione di danza (spesso concepita senza prestare la giusta attenzione alla preparazione atletica).

IDA da anni mette a disposizione di chi pratica danza, ma soprattutto di chi insegna danza, tutte le conoscenze derivanti dalla multidisciplinarietà delle materie che hanno come oggetto il benessere del corpo, il suo potenziamento fisico.

 

Il percorso Dance Trainer, ideato in base alle migliori conoscenze nel campo del fitness e delle scienze motorie, si articola in tre seminari ognuno pensato per raggiungere obiettivi specifici:

 

DANCE CONDITIONING

Il seminario si propone di indagare e analizzare le forme di preparazione fisica più adatte alla danza, legando meccanismi di forza e resistenza con l’acquisizione di metodologie scientifiche volte alla creazione di percorsi adatti ai propri allievi.

DANCE PROPS

Nei due giorni di seminario, si approfondiranno metodologie di allenamento legate all’utilizzo di props, piccoli attrezzi già molto utilizzati nel fitness e nel pilates, ma con una chiara e specifica utilità nella preparazione fisica della danza, essi infatti permettono di lavorare sul movimento di specifici muscoli, permettendo di migliorare le sinergie e il coordinamento, fino a giungere alla prevenzione degli infortuni.

Elastici, gym ball, soft ball, roll, pesetti, sedia saranno i protagonisti del seminario.

DANCE FUNCTIONAL TRAINING 

Il seminario propone l’analisi e lo studio di programmi di ginnastica funzionale applicati alla danza: senza perdere di vista le necessità fisiche del danzatore, in questo percorso si pone particolare attenzione agli analizzatori (cinetico, statico dinamico, visivo, uditivo, tattile). Il percorso si sviluppa partendo da esercizi di mobilità articolare, fino ad arrivare al potenziamento muscolare.

 

 

 

 

 

© Expression Dance Magazine - ottobre 2021

 

 

 

 

 

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